Kusama: Infinity – Infinitamente obsoleto rispetto a chi racconta

05/03/2019 di Redazione

Il documentario, specialmente quello biografico, è un terreno di sperimentazione cinematografica incredibilmente vasto e fertile. Libero dalle costrizioni delle logiche distributive, può davvero rappresentare una inaspettata innovazione nella grammatica, nel linguaggio e nel racconto cinematografico. Ecco perché ci sorprende che proprio Kusama: Infinity, della esordiente Heather Lenz, non sia nulla di tutto ciò. Un impianto a dir poco classico e prevedibile, con filmati di repertorio e foto d’archivio, una breve intervista a Yayoi Kusama e qualche contributo sparso di testimoni non meglio identificati. Non uno spettatore se non sui titoli di coda. Non uno sforzo in più per una dichiarazione, per esempio, da parte di un qualche esponente della Biennale di Venezia.

Kusama: Infinity, il ritratto di una donna ossessionata

L’altro imperdonabile difetto di Kusama: Infinity è quello di veicolare l’obsoleto e costringente concetto che l’arte, o meglio la sua ispirazione, debbano necessariamente nascere dall’interno dell’artista. Un essere umano disagiato, chiuso e al di fuori di tutto, che ha già dentro di sé tutto ciò che gli occorre. Come se l’ispirazione non fosse frutto, anche e soprattutto, del dialogo, il confronto, l’osservazione del mondo e le sensazioni, gioiose o dolorose, che il forte sentire di un’artista come Kusama ha provato nel corso della sua lunga carriera.

Kusama è una donna che vive di ossessioni, compulsioni, ripetizioni e accumulo. Ciò traspare in maniera prepotente, sessuale, viscerale e sistematicamente folle nella sua arte. Qualcosa di ancora vivido e incredibilmente ancestrale che l’artista, all’età di novant’anni, continua a lasciar fluire fuori da sé con estrema naturalezza e con la stessa urgenza di quando aveva trent’anni. Una donna che ha avuto bisogno della propria arte per non soffocare sin da quando di anni ne aveva dieci. Come si può solo pensare che in ottant’anni tutto nasca soltanto da un episodio infantile? Come si può, nel 2019, portare ancora avanti l’idea dell’ispirazione interiore che basta a se stessa e non debba nutrirsi delle influenze del mondo? È Kusama stessa a dirlo: ha vissuto di moda, interpretato gli eventi come la Seconda Guerra Mondiale e l’elezione di Nixon, giudicava la stampa giapponese rispetto alla statunitense… Come si può mostrare queste interviste di archivio e insieme affermare che le nascesse tutto solo da dentro? Se l’arte di Kusama fosse nata solo dalle sue ossessioni e dalla sua coazione a ripetere, sarebbe una barbona accumulatrice e non l’artista donna vivente che vende di più al mondo.

Cosa si impara da Kusama: Infinity

La prepotenza innovatrice dell’arte di Kusama – che forse un po’ folle lo è, ma è una vita che convoglia tutto nell’arte più aggressiva e contemporaneamente adorabile che ci sia – straborda anche se si cerca di imbrigliarla tra le inquadrature vecchie e il montaggio noioso di questo documentario. Che ha comunque il vantaggio di essere il primo, così articolato, su questa artista così speciale, che alla Biennale di Venezia vendeva pezzi della sua installazione a chiunque, a un prezzo poco superiore a quello di un hot dog. Una piccola donna piena di insicurezze, paure, bisogno infantile di accettazione, che pure non solo ha fatto arte, ma ha costretto il mondo intero a mettere in discussione cosa l’arte sia e cosa comporti la sua mercificazione.

Nulla e nessuno – e la storia sa se ci hanno provato! – potrà mai fermare ciò che ha fatto, così come un racconto zoppicante non riesce a oscurare i colori pieni e la claustrofobia delle sue opere. Importante sia per chi l’arte la ama che per i giovanissimi ignari di indossarla stampigliata su qualche gadget da quattro soldi, Kusama si fa largo in questo racconto. Troppo enorme per essere nascosta, come un elefante in una cristalleria.

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