Judy: conferenza stampa con il regista del biopic su Judy Garland
23/10/2019 di Redazione
Judy, film di Rupert Goold, sulla vita della celebre Judy Garland, scava nell’interiorità dell’artista e nella sua vita fuori dagli schermi.
Rupert Goold, il regista di Judy, film su Judy Garland, racconta l’anima del film e l’interiorità della celebre attrice, cantante e ballerina. Lo star system, un’infanzia difficile e il prezzo del successo. Presentato alla 14ª Festa del Cinema di Roma, il film rappresenta la vita di una donna di fama mondiale che ha conquistato il pubblico.
La struttura del film è molto particolare, non è il classico biopic. Non vediamo l’intera vita dell’artista, ma principalmente due momenti. I primissimi tempi, alcuni fallimenti, gli esordi e gli ultimi mesi. Cosa gli premeva raccontare?
Rupert Goold: “io avevo già in mente un’idea strutturale. Cioè siamo alla fine della vita di Judy, lei è molto lontana da casa, vorrebbe tornare e sta lottando per ottenere un risultato. Ha intrapreso un viaggio, è a contatto con persone estranee in un Paese estraneo. Ed è la stessa esperienza che ha avuto da bambina, in un contesto diverso. Volevo rendere il concetto secondo cui il nostro finale è determinato dall’inizio. Per lei è stato così, non ha avuto un’infanzia. Attraverso Il mago di Oz è diventata una sorta di bambina di tutti. E da questo ricordo cerca, invece, di dare ai suoi figli un’infanzia normale. Mi interessava rappresentare l’artista nell’ultimo periodo della sua carriera. Spesso quando un musicista inizia a perdere il proprio strumento, quindi la propria voce o mezzo per produrre arte, trova altri modi di esprimersi. Attraverso la propria anima, con una diversa tecnica o con il fraseggio. Noi spettatori mentre vediamo il film sappiamo che Judy non potrà continuare così a lungo. C’è qualcosa di magico in lei, che alla fine ce la fa”.
Questo paradosso dell’essere la bambina di tutti è evidente. Ma anche l’accettazione di dover abbandonare i propri figli per poter guadagnare dei soldi che poi le permetteranno di stare con loro. Ed è purtroppo il destino di molte persone.
Rupert Goold: “sì, penso che in parte sia il prezzo della fama e della celebrità. Judy Garland è stata una delle prime bambine ad ottenere un riconoscimento internazionale globale. Ma era anche un’epoca diversa. Pensiamo ai bambini interpreti degli otto film di Harry Potter. Ora c’è una maggiore attenzione e protezione nei confronti delle piccole star. La Garland è stata come un canarino in una miniera. È stata segnata per tutta la vita dal successo. Anche la sceneggiatura è stata pensata con l’idea di non rappresentare la Garland sempre e solo nel mondo delle sue performance. Io la racconto single, povera, alle prese con problemi reali… tutte situazioni che per lei sono una novità”.
Renée Zellweger canta dal vivo nella maggior parte del film?
Rupert Goold: “sì, Renée canta tutte le canzoni con la sua voce. Tranne forse una e mezzo, sono tutte registrate dal video, per noi era molto importante ottenere la musica dal vivo. A Renée in realtà non l’abbiamo detto. La prima volta che canta lei voleva usare ovviamente una pre-registrata. Ma io ho insistito dicendole che non era importante che la canzone venisse cantata perfettamente, perché forse neanche Judy in quel momento poteva. Ho detto a Renée: l’importante è il tuo cuore. Non doveva cantare come Judy, doveva prenderne lo spirito”.
Personaggi come Marilyn Monroe o Kurt Cobain hanno subìto l’abuso della fama. E sono ricorsi all’uso di pillole, alcool e droga. Prima di essere una madre bisognerebbe essere in grado di tutelare la propria figlia, non crede?
Rupert Goold: “credo che fosse un’epoca diversa. La madre di Judy era gelosa della figlia. Aveva tre figlie, e Judy era sempre stata la più amata, poi la più celebrata. Entrambe sono state sposate con un gay, ma le attenzioni erano comunque tutte per Judy. Però non potevamo far entrare nel film anche il rapporto madre-figlia. Mi piaceva raccontare il fatto che lei fosse nata all’interno degli studios, una sorta di Truman Show. A me interessava la sua vita artificiale, che è stata accettata dalla madre”.
Quanto il film è fiction e quanto è realtà? Londra, rispetto ad Hollywood, sembra averla accolta e apprezzata, questo è vero?
Rupert Goold: “la maggior parte della storia è vera e accuratamente ricostruita. La scena ad esempio del pubblico che canta per lei è incredibile, ma è successo realmente. Invece quella in cui lei va a cena con i fan ce la siamo inventata. Per esplorare un po’ la sua comunità. Londra l’ha abbracciata, l’ha accolta. Il giro dei concerti era iniziato come un trionfo e una celebrazione. Ma poi il pubblico iniziò a scoprire che si drogava, che faceva uso di alcool e pasticche. Arrivava tardi agli eventi e agli spettacoli. Hanno cominciato ad avere una visione più voyeristica, a chiedersi se avrebbe avuto un crollo in diretta sul palco. È stato brutto questo da parte di una città come Londra. Il manager le chiedeva di cantare scene dopo scena, con dei ritmi disumani. Ma credo che comunque ciò che l’ha rovinata sia stato lo star system che ha vissuto da bambina”.
Il cuore del film è tutto sulle spalle di Renée Zellweger, com’è stata la scelta dell’attrice? È stato fatto un casting o la sceneggiatura è stata scritta pensando a lei? Poi se ci può raccontare un po’ com’è stato il lavoro sul personaggio, il trucco, i costumi e la trasformazione dell’attrice.
Rupert Goold: “il produttore aveva preso i diritti dell’opera teatrale su cui si basa il film, conosceva Renée e il progetto è iniziato senza la sceneggiatura. Era essenziale per me che l’attrice avesse all’incirca la stessa età di Judy nel periodo che volevo raccontare. Doveva saper cantare, avere una vena comica, ma anche una forte emotività. Judy aveva l’aria della ragazza della porta accanto, di una sorellina da accudire. Indifesa. Renée è una grande star, però la trovavo in sintonia con il personaggio. Ho pensato a lei anche perché erano sei anni che non appariva sul grande schermo. In più lei è un’attrice che ha sentito l’attenzione e l’intensità dei media. Ha fatto un percorso personale sul tema della fama”.
“Per quanto riguarda il trucco io ero particolarmente interessato sia all’aspetto interiore che a quello esteriore. Ovviamente il make up ha giocato una parte importante.Renée ha preso lezioni di canto, ha avuto canzoni da imparare. Durante la pre-produzione, ricordo, una volta ho voluto che ci fermassimo, perché avevo davvero voglia che emergesse Renée. Nonostante i denti, la parrucca, le lenti a contatto e il naso finto. Lei ha fatto anche un lavoro sul corpo, il modo in cui Judy teneva le spalle per esempio Renée l’ha riprodotto alla perfezione”.
Aveva preso in considerazione altre attrici per questo ruolo?
Ruper Goold: “no, in realtà. Ci sono grandi attrici che potrebbero essere credibili come quarantasettenni, che è l’età a cui ero interessato io. Come ad esempio Cate Blanchette. Abbiamo pensato anche a lei. Una cosa importante era che si riferisse sempre al mondo del cinema: molte attrici che sono passate da giovinezza a maturità su dei set hanno trovano la loro forza, determinazione e sintonia in quell’ambiente. Judy era sì una donna forte, ma era anche molto debole. Io volevo che Renée riuscisse a cogliere questo tema e questa interiorità”.
Lei ha fatto una carriera da direttore teatrale, quanto ha influito la sua esperienza in teatro? Il film è girato quasi interamente in un teatro, sul palco, dietro le quinte. Come l’ha strutturato?
Rupert Goold: “sì, io ho diretto musical e opere e mi sentivo a mio agio con questo tipo di performance. Come per esempio la tipologia del cantare. Ma anche quando dirigevo spettacoli teatrali io non passavo molto tempo sul palcoscenico. Andavo nei camerini, nei corridoi. Andavo a prendere gli attori a casa. Ero interessato alla loro vita segreta. Sono delle persone, come tutti. Forse nel teatro, in quello classico, si è più abituati a vedere l’attore nel proprio personaggio. Io non ho mai voluto che l’attore diventasse chi interpreta. Ma che ci fosse una sorta di integrazione tra la persona e il personaggio. È una differenza sottile, ma sostanziale“.
Quando si ha a che fare con il mito è sempre difficile scegliere le cose da raccontare e scavare per trovare la donna dietro la maschera. Quanto è stato difficile questo per lei?
Rupert Goold: “io non volevo trovare una verità in particolare. Volevo rappresentare l’integrità dei problemi di Judy come madre e attrice, e avevo qualcosa con cui rapportarmi. Mi sono sempre chiesto come sarebbe stata Renée in questa storia. Molti registi sono conformi all’idea del metodo e del personaggio, io invece voglio che esca ciò che c’è dentro di loro. Cercavo la reazione migliore di Renée come Judy, una sorta di Judy di Renée. Sapevo che sarebbe stata intima la sua interpretazione. Amo il teatro, si sta insieme, si hanno discussioni e si fanno molte più prove. Io volevo trovare la solitudine di Judy. Perché molti, giustamente, si sono chiesti come poteva essere così famosa ma sentirsi così sola. Lei aveva la sua depressione, la sua filosofia, un suo sogno. E noi è quest’insieme di sentimenti che volevamo cogliere”.
Quanto è stato importante il contributo di Rosalyn Wilder?
Rupert Goold: “fondamentale e straordinario. Abbiamo lavorato molto con lo sceneggiatore, abbiamo parlato molto di Judy. Tante persone ne parlavano sempre, ogni marito che ha avuto ha scritto un libro su di lei, sulla sua vita. Su che tipo di persona fosse. Rosalyn invece ci ha dato un sacco di dettagli diversi: il night, chi era Judy quando entrava in hotel e quando usciva. Il caos della sua vita. Rosalyn ha detto che quel locale, The Tock of the Town era il simbolo più evidente dei ruggenti anni ’60. C’erano ogni mese dei grandi artisti. Ci ha raccontato il suo rapporto con Judy, la loro amicizia profonda, proprio quell’intimità che volevo comunicare”.