Prima di scrivere ‘smart working’ in un dpcm, bisognerebbe prima capire cos’è
Ci sono differenze profonde tra smartworking e telelavoro, che però non sono contemplate dal quadro normativo
21/10/2020 di Matteo Forte
La differenza tra lavorare da casa e in smart working spiega come non si sia fatta chiarezza su come dovrà cambiare necessariamente il lavoro. Lo smart working è il lavoro agile, possibile in luoghi diversi e spesso in orari flessibili. Il lavoro da casa o telelavoro è strettamente vincolato a orari e a un luogo specifico. La differenza in questo momento potrebbe suonare come una mega presa in giro: se sono chiuso in casa, ben poca libertà mi viene data. Quindi, di conseguenza, quello che ci viene proposto come smart working è a tutti gli effetti telelavoro, normato da tempo e applicato abbondantemente.
Ma siamo in smart working o in telelavoro?
La nuova dimensione del lavoro pone domande imprenditoriali sull’effettiva produttività e sulla stabilità dei vari livelli di comando, controllo e gestione del personale. Indubbiamente lo smart working (o il telelavoro?) aumenta la produttività: viene a crearsi per molte attività una forma di libertà coatta che genera, in quello spazio fisico e temporale, una nuova vera catena di montaggio digitale, difficilmente comprensibile.
Sicuramente, quindi, si produce di più in telelavoro o smart working contingentato. Ieri la ministra Fabiana Dadone ha dichiarato che gli utenti (!) potranno dare feedback sull’operato dei lavoratori pubblici in smart working. Premesso che siamo stati vittime di una presa in giro sul concetto di smart working (com’è stato evidenziato in precedenza), è come se la ministra ci stesse chiedendo di sostituire nuovamente il management pubblico con i voti da casa: un nuovo talk show grottesco, un nuovo utilizzo pietoso della rete. Si produce di più, da una parte, ci si annichilisce in telelavoro (non smart working) e in più si viene pure qualificati dai tanti rosiconi presenti nelle periferie dei social.
Ricorderei a tutti i cristiani che Gesù è stato crocifisso per volere popolare, ma che Cristo – in fondo – fa anche lui telelavoro.
Smart working, c’è chi dice no
Dopo aver esaminato le storture sullo smart working che sono state in ogni caso alimentate anche da alcune visioni all’interno del governo, arriviamo all’esatto opposto, privo di ogni premessa e igiene della propria immagine pubblica. Ovvero —> Salvini dice che è meglio lavorare in ufficio (ma ha l’11% di presenze in Senato).
Non sapendo cosa è il lavoro, non sapendo cosa è un telelavoro, non sapendo cosa è uno smart working, non sapendo che il suo lavoro è in parlamento, arriva una valutazione (in mascherina, almeno) per polarizzarsi sempre “contro” e a favore degli algoritmi dei social network usati per la sua incessante propaganda.
Lo smart working, di fatto, non si è mai potuto applicare perché siamo stati praticamente sempre contingentati e perché per essere organizzato, gestito, applicato, deve essere regolamentato a livello nazionale da luminari dei processi aziendali, dagli psicologi e dalle varie sigle sindacali. Lo smart working è un cambio di passo della società produttiva, che abbraccia la produttività e l’umanità della persona, senza indecisioni e con ampia libertà di contrattazione tra piccole-medie imprese e dipendente.
Microsoft, in merito al tema dello smart working, ha già cambiato idea almeno 3 volte su come gestire l’azienda in questo periodo e su quello che verrà. Sebbene Bill Gates sia uno degli obiettivi più sensibili per i complottisti (lui e Soros sono dietro a tutto), l’azienda che ha fatto monopolio e innovazione per un trentennio ha deciso pochi giorni fa di creare uno smart working ibrido, con presenza in ufficio “fluttuante” e la metà del tempo dove uno vuole.
Una persona che ho imparato ad apprezzare moltissimo mi ha confidato che nella vecchia Olivetti di Adriano si diceva “fuma provuma cambiuma” (sperando di fare una buona traduzione dal dialetto piemontese “facciamo, proviamo, cambiamo”). Facciamo, proviamo, cambiamo? È il momento giusto.