Banda ultralarga: quel ritardo che potrebbe costarci caro

Quali sono le ragioni del ritardo dell'Italia con la banda ultralarga e quali danni potrebbero derivarne arrivati a questo punto?

16/04/2021 di Daniele Tempera

A distanza di sei anni dal primo mattoncino, il piano per cablare l’Italia in fibra ottica e in reti wireless di ultima generazione è ancora in larga parte inattuato. E il Covid-19 ha acuito di molto i rischi del nostro digital divide. L’anno era il 2015. Al governo c’era ancora Matteo Renzi e le pandemie erano presenti solo nei film di fantascienza. Con qualche anno di ritardo, rispetto al resto del mondo occidentale, anche l’Italia si dotava di un piano strategico per cablare tutta la Penisola con la banda ultralarga, riconoscendo alle reti digitali un’importanza fondamentale nello sviluppo economico e sociale del Paese. Da allora abbiamo attraversato la stagione del terrorismo internazionale, varie crisi di Governo e il Covid-19 che ha riportato d’attualità l’esigenza di possedere una rete decente per lavorare e formarsi. A distanza di sei anni però, possiamo dire che non è andato tutto come ci si aspettava.

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Cosa si intende per banda ultralarga?

Cosa si intende per banda ultralarga? Secondo l’Agenda europea questa definizione può essere applicata a ogni rete caratterizzata da una connettività superiore ai 100mbps. Per la Commissione Europea entro il 2030 tutte le famiglie europee dovranno poter usufruire di una connettività di almeno 1 Gbps e il 5G dovrà coprire tutte le aree popolate del continente. Ma se il Mise è meno ambizioso, definendo banda ultralarga tutte le connessioni superiori ai 30mbps, anche in questo caso il ritardo è rilevante. Il cuore di questa architettura è la cablatura di aziende, uffici e abitazioni in reti in fibra ottica. Uno sforzo infrastrutturale per il quale servono investimenti ingenti, specie nelle cosiddette “aree bianche” ovvero in quelle zone in cui i privati non hanno alcun interesse a investire perché poco redditizie. I bandi ad appannaggio della copertura delle “aree bianche” del Paese sono stati assegnati a Open Fiber, società presieduta al 50% da Enel e Cassa Depositi e prestiti. Ma se l’obiettivo era di coprire tutto il Paese entro il 2023, siamo ancora in alto mare.

Perché siamo in ritardo e cosa potrebbe comportare?

Qualche dato: secondo il Mise ad oggi è stato completato appena il 19% dei cantieri per fibra ottica (1449) e il 10% (731) di quelli destinati al wireless. La diffusione dei servizi di banda larga (30mbps) riguarda il 66,6% degli italiani, quelli per banda ultralarga a 100mbps appena il 20,3%.

L’allarme è stato lanciato la scorsa estate dall’Uncem, l’Unione dei comuni e degli enti montani, che denunciava un ritardo di almeno due anni rispetto alla tabella di marcia e il forte rallentamento dei lavori anche per le linee wireless (FWA), essenziali per raggiungere anche le comunità più isolate. Un ritardo innegabile: a giugno dello scorso anno dovevano essere serviti oltre 3mila comuni, ne risultavano alla conta appena 200. Un problema ammesso, ai tempi, anche dall’Amministratore delegato di Infratel (società in house del Mise dedicata all’attuazione del Piano). “Siamo indietro di almeno due anni” aveva ammesso Marco Bellezza intervistato dalla trasmissione di Rai3 Report.

Ma i problemi riguardano anche la commercializzazione. Dove i cantieri sono ufficialmente conclusi, e la rete collaudata, il servizio va poi venduto agli operatori che devono poi erogarli agli operatori finali. A settembre dello scorso anno Infratel denunciava come ciò non fosse di fatto avvenuto in parecchi comuni. Ad oggi va meglio: i comuni in commercializzazione sono 2002 e 904 quelli collaudati positivamente, ma siamo ancora in ritardo rispetto alla tabella di marcia. C’è poi l’abbondante capitolo degli investimenti programmati non operati dagli investitori privati (verso i quali finora non era prevista alcuna sanzione) e la concorrenza di Tim, le cui reti non di rado si sovrappongono a quelle di Open Fiber.

Sul piatto c’è ancora una possibile fusione, nella realizzazione dell’infrastruttura tra FiberCop (Tim) e Open Fiber, che pare ancora in alto mare (anche per le perplessità sulla possibile ingerenza di Vivendi, maggior azionista di Tim) e la promessa del Governo di utilizzare parte del Recovery Fund per spingere sull’acceleratore della copertura digitale del Paese. Ma mentre Colao annuncia controlli più stringenti sugli impegni presi e Giorgetti parla di “rete unica” solo sotto “controllo pubblico”, lanciando così un segnale indiretto a Tim e Vivendi, il ritardo continua a farsi sentire, specialmente durante la pandemia. Sono tanti gli italiani che hanno avuto difficoltà a studiare e lavorare a distanza durante questi mesi. Molte le aziende che denunciano una connettività non all’altezza di un moderno paese industriale. Il rischio è di tagliare una gran fetta del paese fuori dalla contemporaneità e dalle opportunità E la realizzazione del piano sta diventando, in breve, uno degli asset fondamentali per uscire dal post pandemia. Un tempo avremmo detto che si trattava di cominciare a pensare al futuro. Oggi è più realistico affermare che è tempo di rincorrere il presente.

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