Crowdfunding e paywall: il confronto tra i due modelli a sostegno dell’editoria

Nel mondo dell'editoria, diverse realtà si sono affidate a due strategie di "finanziamento" differenti tra loro

17/04/2023 di Enzo Boldi

C’era un tempo in cui l’informazione passava solamente attraverso la carta stampata (quindi, a pagamento). Poi è arrivata la radio, seguita dalla televisione. Fino ad arrivare a internet e a quella percezione (legittima, viste le dinamiche) di poter ottenere contenuti e approfondimenti giornalistici gratuitamente. Senza più andare in edicola, infatti, bastava avere una connessione a internet per accedere ai motori di ricerca o alle homepage dei singoli quotidiani per leggere le notizie. Un modello si business che si è affidato agli algoritmi di Big Tech, provocando il deperimento economico delle testate (singole o dei grandi gruppi editoriali), l’abbassamento degli introiti pubblicitari e – come conseguenza logica – l’appiattimento verso il basso della qualità di ciò che viene scritto (e di come viene scritto). Una corsa affannosa e affannata che ha devastato l’ecosistema giornalistico, sempre più alla ricerca di click che di qualità. Poi, nel corso degli anni, sono subentrati due strumenti adottati da alcune realtà per cercare di sopperire a questa crisi: parliamo del paywall e del crowdfunding.

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Si tratta di due modelli di “finanziamento” che hanno genesi, caratteristiche e obiettivi differenti tra loro. Ma sono due strumenti che sono molto in voga nel mondo dell’editoria, alla ricerca di fondi per il sostegno all’attività giornalistica (o per restituire quelle dinamica di informazione “di qualità” a pagamento) o per l’avvio di un progetto che necessità di una quantità – più o meno ingente – di fondi. Non solo per la sussistenza, ma anche per mettere delle basi solide.

Paywall e crowdfunding, le differenze tra i due modelli

Come detto, paywall e crowdfunding sono due modi differenti per finanziare un progetto o un’attività in rete. Il primo, come Giornalettismo ha già spiegato in un precedente approfondimento, è un sistema che prevede (con diverse dinamiche) l’accesso ai contenuti (rimanendo in ambito meramente giornalistico) solo dopo aver sottoscritto un abbonamento (o aver acquistato, per chi fornisce questo servizio, la possibilità di leggere un solo contenuto). E ci sono diverse tipologie di paywall:

  • A donazione: si offrono al lettore contenuti a fruizione completamente libera, ma all’interno del portale compaiono disclaimer o messaggi per invitare l’utente a sostenere economicamente il progetto editoriale versando una cifra a suo piacimento (per esempio, il Post);
  • Il Metered paywall: il portale mette a disposizione dell’utente un numero massimo di articoli-contenuti consultabili a titolo gratuito. Superata quella soglia, occorrerà sottoscrivere un piano di abbonamento per poter continuare ad accedere alle pubblicazioni (per esempio, il Messaggero);
  • Il Freemium (o soft) paywall: è uno dei modelli più diffusi nel mondo dell’editoria italiana. La redazione decide quai contenuti lasciare alla libera fruizione da parte del lettore e per quali prevedere l’accesso solo previa sottoscrizione di un abbonamento. Una sorta di “categoria” in cui, spesso e volentieri, vengono inseriti quegli articoli-video-foto “esclusivi (per esempio, La Repubblica e Il Corriere della Sera);
  • L’Hard paywall: è il paywall duro e puro. La barriera più restrittiva che prevede il pagamento di un abbonamento per poter leggere e visionare qualsiasi contenuti pubblicato all’interno di un sito (nessuna realtà editoriale italiana utilizza questo strumento, all’estero è famoso Financial Times).

Quattro modalità differenti in base a scelte strategiche prese dalle singole aziende editoriali. Il tutto per sopperire a quei mancati introiti economici che derivano da diversi fattori: il calo degli investimenti pubblicitari, le regole non definite degli algoritmi di motori di ricerca (la SEO è solo uno dei fattori determinanti ed è in continua evoluzione), il numero di copie cartacee vendute in edicola in costante calo da anni. Dunque, una situazione tutt’altro che rosea che porta gli editori a viaggiare tra paywall e crowdfunding.

Quest’ultimi, come nel caso di Lettera22, hanno obiettivi differenti e strumenti differenti. Perché il crowdfunding applicato al mondo editoriali si concentrano su finanziamenti diretti a uno o più progetti: dai libri alle riviste, passando per i podcast. Chi lancia una campagna di raccolta fondi si affida alle piattaforme online già esistenti oppure agisce in modo nativo (collegando una pagina del portale agli estremi per procedere con il versamento di una quota, definita o libera. A differenza del modello paywall, il crowdfunding consente a editori e autori di superare le tradizionali fonti di finanziamento e di raggiungere direttamente il loro pubblico di riferimento.

Gli esempi

Dunque, si tratta di due modelli differenti con altrettanti strumenti differenti. E se il modello del paywall ha compreso – pian piano – buona parte dell’ecosistema informativo e giornalistico italiano, quello del crowdfunding (quindi quello relativo a singoli progetti) è ancora poco utilizzato, nonostante ci siano dei celebri esempi. Parlando di paywall, oltre ai già citati il Post, il Messaggero, La Repubblica e il Corriere della Sera, ci sono esempi come Il Fatto quotidiano che rappresenta un modello ibrido: una parte dei contenuti (non tutti) sono leggibili solo dopo aver sottoscritto un piano di abbonamento; inoltre, è possibile rispondere al claim che invita a una donazione (non libera) a mo’ di sostegno.

Per quel che riguarda, invece, il crowdfunding, l’esempio più noto è quello rappresentato da Valigia Blu che ogni anno avvia una campagna di raccolta fondi (libera, a partire dalla cifra minima di 1 euro) per portare avanti il progetto editoriale indipendente, senza editori e senza paywall. Dunque, un progetto basato sul fact-checking (e non solo) che vive e sopravvive grazie ai lettori che decidono (autonomamente) di sostenerlo economicamente attraverso piccole o grandi donazioni singole.

 

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