Perché la musica sui social non può essere gratis

Lo è per gli utenti che ne usufruiscono, ma non può esserlo per le piattaforme che ne traggono profitto

06/03/2024 di Enzo Boldi

Di recente è salito alla ribalta il mancato accordo per il rinnovo di un contratto di licenza tra la Universal Music e TikTok. Prima c’era stato il caso – risolto solo con un accordo transitorio rinnovato già tre volte – della contesa tra Meta (quindi Facebook e Instagram) e la SIAE. Oggi ci troviamo di fronte all’ennesima rappresentazione di questo paradigma, con le accuse mosse dalla NMPA americana (che rappresenta 17 etichette musicali) e X. Si parla di diritto d’autore e di musica utilizzata sui principali social network. Un paradigma che – per molti fattori – non può essere racchiuso nella volontà di renderne l’utilizzo (da parte delle piattaforme) gratuito.

LEGGI ANCHE > La mezza vittoria di X nella causa per violazione del copyright musicale

Se è vero che noi utenti abbiamo la libertà di utilizzare gratuitamente i contenuti inseriti nelle varie librerie musicali presenti sui social network (gratuito fino a un certo punto, visto che il vero mercato di queste piattaforme è basato sulla profilazione pubblicitaria mirata, quindi sui nostri dati), le stesse piattaforme devono – in alcuni casi, purtroppo, “dovrebbero” – trovare accordi di licenza. Insomma, stipulare contratti per definire un quantitativo di soldi da versare per poter usufruire dei brani coperti e tutelati dal diritto d’autore.

Musica sui social, perché non può essere gratis

La misura di questo corrispettivo economico è variata negli anni. Con la nascita di nuove piattaforme, la forchetta che misura la distanza tra domanda e offerta si è fatta sempre più larga. E se da tempo gli artisti lamentano gli scarsi introiti dalle riproduzioni sulle principali piattaforme di streaming, il tema della musica sui social network continua a essere molto vivo, anche se nell’ombra. Prendiamo, per esempio, l’ultimo sfogo del cantante e produttore musicale britannico James Blake:

«Se vogliamo musica di qualità, qualcuno dovrà pagare per averla. I servizi di streaming non pagano correttamente, le etichette vogliono una fetta più grande che mai e si siedono ad aspettare che tu diventi virale, TikTok non paga correttamente e i tour stanno diventando proibitivi per la maggior parte degli artisti. Il lavaggio del cervello ha funzionato e ora la gente pensa che la musica sia gratis». 

L’accusa, dunque, è generalizzata. Da una parte i servizi di streaming che pagano poco (in base agli accordi) per le riproduzioni. Dall’altra le etichette che attendono la “viralità” per dare risalto all’attività creativa di un artista. Insomma, due paradigmi che, oramai, si sono incardinati nel sistema produttivo musicale a livello globale.

Erano meglio i CD?

La musica è un prodotto creativo e, per sua natura, richiede tempo, talento. Ma anche risorse. Ha un valore che dovrebbe essere riconosciuto e compensato lungo tutta la filiera, fino ad arrivare alle nuove modalità di utilizzo e fruizione. Per questo occorrerebbe arrivare ad accordi per un giusto compenso, altrimenti si minerebbero le fondamenta dell’industria musicale, dando vita a un’equazione di difficile risoluzione: se gli artisti non possono guadagnare dalla loro musica, saranno incentivati a non produrne più o – come avviene in molti casi – a produrre contenuti di scarsa qualità destinati alla ricerca della viralità social. E le conseguenze non sono esclusivamente per gli artisti, visto che la filiera è composta da innumerevoli figure.

Dunque, se è vero che noi utenti usufruiamo e utilizziamo musica sui social in forma gratuita, è altrettanto vero che dagli stessi utenti dovrebbe arrivare una spinta a una corretta retribuzione per chi fa musica. Anche perché, come noto, sono i contenuti video (quindi quelli con brani e canzoni) ad alimentare il traffico sulle piattaforme. Dunque, attraverso questi video (specialmente sei “virali”) i social network riescono ad aumentare il loro fatturato.

Share this article