La storia di Marion Olzai, positiva al Covid e che ha perso il padre per colpa del Coronavirus

La lettera di una donna che ha pianto la morte del padre, mentre lei è alle prese con il contagio

29/10/2020 di Gabriele Parpiglia

Oggi sono rimasto paralizzato dinanzi a questo racconto per ore. Poi ho sentito Marion ed è stata lei a rincuorare me. Una storia incredibile. Sono devastato. Avrei bisogno della coperta di Marion. Ecco il racconto integrale di Marion Olzai.

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Ciao Gabriele,

Venerdì 9 ottobre alle 11 circa sono arrivata al pronto soccorso di Latina, prima ancora di scendere dall’ambulanza mi sono resa conto che quel “viaggio” appena iniziato sarebbe stato particolare. Quando arrivi al pronto soccorso come sospetta covid entri in una realtà che se non la vivi non puoi capire, è difficile anche a spiegare cosa si prova, cosa vedi, cosa senti! La prima cosa che percepisci è che tu sei “un altro caso che non sanno dove mettere”. Io, sospetta covid, sono stata messa tra i pazienti positivi perché nelle stanze dei sospetti non c’era più posto. Quando sono arrivata c’erano tre pazienti nella stanza, nella notte siamo arrivati a 15, e la stanza era adibita per 10. Lì dentro c’è il panico più totale, nessuno ti da retta perché hanno tutti da fare, e quando chiedi qualcosa devi ritenerti fortunato se riesci a ottenerla dopo qualche ora. Dopo essere stata in piedi per un pò, perché stavano decidendo dove mettermi, mi assegnano una barella nel reparto covid appunto, e da lì mi fanno tampone, prelievi e rilevazioni varie, poi più niente fino alla tac del tardo pomeriggio. Stavo la su quella barella e aspettavo che qualcuno mi dicesse qualcosa e pregavo Dio che mi mandassero a casa. Ho chiesto una mascherina nuova perché, starnutendo e tossendo, la mia si era tutta inumidita. Ho chiesto una coperta che non mi è stata data perché non ne avevano, ma non mi hanno detto subito “ci dispiace, ma non ne abbiamo”, mi hanno detto “appena possibile le faremo avere la coperta”. Avevo la febbre quindi avevo freddo, ma avevo anche fame e sete, perché nessuno era passato a vedere se noi del reparto covid avevamo bisogno di qualcosa. Mi ricordo che ho chiamato mia madre disperata, dicendo che avevo fame e sete, così lei è partita da Aprilia e mi ha portato quello che le avevo chiesto di portarmi. Sono stata stupida perché mi sono fatta portare solo una vestaglia, dell’intimo pulito, l’acqua e il cibo, ma non mi sono fatta portare una coperta. Ci siamo morti di freddo tutta la notte perché nessuno ci filava con questa storia delle coperte fino a quando abbiamo sbloccato e così è arrivata un’infermiera dicendo “abbiamo solo una coperta”. Abbiamo deciso, giustamente, di lasciarla alla signora più anziana che stava messa peggio di tutti, e noi siamo rimasti li come dei salami. La notte sono stata malissimo, avevo dolori muscolari ovunque, quindi mi alzo per chiedere all’infermiera se potevano darmi una tachipirina, ma lei mi dice che doveva parlarne con il medico. Annuisco, pensando che poi sarebbe venuta da me, e vado alla mia barella. Ancora mi domando se sono tipo svenuta dai dolori o se invece mi sono solo addormentata mentre aspettavo la tachipirina. Apro gli occhi dopo un’ora/due, erano le 3 di notte circa, stavo peggio di prima quindi mi alzo incazzata e vado dall’infermiera e le chiedo della mia tachipirina. Se avessi potuto le avrei messo le mani addosso! Alla mia domanda circa la tachipirina lei mi risponde dicendo: “Il medico ha detto che la tachipirina va bene solo se ha la febbre”, così ho rosicato e le ho detto “io sto male, faccia quello che vuole, parli con chi vuole, ma lei mi deve dare qualcosa”. Di lì a poco mi ha somministrato del toradol. La cosa assurda in tutto questo è che nessuno si è minimamente preoccupato di verificare se io avessi o meno la febbre, l’unica cosa che mi hanno chiesto è se avevo allergie. Alt. In tutto questo mio papà era già stato ricoverato a Casalpalocco l’8 ottobre con polmonite bilaterale per Covid. Purtroppo.

Marion Olzai racconta la sua storia

Durante l’arco della giornata mi dicono che il sierologico era risultato negativo, ma dalla tac si vedeva qualcosa, poi silenzio più totale fino alla mattina dopo quando ho deciso di chiedere informazioni sulla mia situazione. Mi dicono che ero positiva, nel trambusto gli era sfuggito di dirmelo, che avevo una lieve polmonite e che era preferibile ricoverarmi visto che: tendevo a desaturare, sono giovane e mio padre era ricoverato in terapia intensiva a Casal Palocco. Mi ricordo di aver chiamato mia madre e di averci litigato perché io volevo andarmene, ero cosciente di non stare bene, ma preferivo crepare a casa piuttosto che li dentro. Ho acconsentito al ricovero per mia madre e per evitare di finire come mio padre perché, ripeto, fosse stato per me avrei firmato e me ne sarei andata visto che mi avevano dato questa possibilità.
Dopo pranzo mia madre mi porta una valigia con quello che le avevo chiesto, ma soprattutto mi porta la coperta e le mascherine chirurgiche. Perché le mascherine chirurgiche? Perché quando ho chiesto la seconda mascherina non mi è stata data, mi è stato risposto: “che cosa ci deve fare?”. Non pretendevo certo di cambiare la mascherina ogni cinque minuti, ma almeno due al giorno era necessario cambiarle visto che si inumidivano tutte. Mi ricordo di una ragazza che era entrata venerdì sera, lei domenica sera quando sono uscita dal pronto soccorso aveva ancora la mascherina con la quale era entrata. Il soggiorno con l’arrivo della coperta è migliorato, non si può spiegare quanto faceva freddo li dentro, o forse eravamo noi che, stando male, sentivamo tutto quel freddo. Nel tardo pomeriggio si avvicina un’infermiera e mi chiede a che ora avevo fatto la terapia della mattina, io la guardo stupita e le dico “che terapia?” Si erano dimenticati di somministrarmela, quindi la comincio la sera. La stessa sera vengo trasferita nella sala hobby, una sala del pronto soccorso più confortevole, più calda e più tranquilla perché non c’era la postazione dei medici, quindi loro entravano solo per portarci da mangiare e farci le terapie. Mi ricordo che appena sono entrata dentro quella stanza sono andata subito alla finestra, mi sono presa il letto vicino la finestra e sono rimasta li in piedi a guardare fuori. Avere la possibilità di poter essere affacciata ad una finestra, sentire il vento e la pioggia mi ha dato speranza! Domenica sera verso le 19 è entrato il medico per dire alla ragazza accanto a me che si era liberato un posto a Casal Palocco, perché tutti noi eravamo in lista nella Regione Lazio per l’assegnazione di un posto letto. La ragazza rifiuta il posto perché preferiva rimanere a Latina, la mamma era ricoverata lì al Goretti e lei voleva starle accanto, così ho chiesto se potevo andare io al suo posto dato che mio padre era ricoverato li in terapia intensiva, era un modo per potergli stare accanto. Il medico poco dopo mi dice che l’ICC aveva acconsentito al mio trasferimento, quindi quando l’ambulanza sarebbe arrivata sarei partita. Non stavo nella pelle, avevo la possibilità non solo di stare vicino a mio padre, ma anche di uscire da lì dentro. Sono arrivata a Casal Palocco attorno alle 21, mi mettono in subintensiva e alle 21.30 circa mi avevano già fatto tutte le rilevazioni, tampone compreso. Ho chiesto subito se era possibile vedere mio padre, ma non me l’hanno consentito. La struttura era molto confortevole, le camere erano pulite, spaziose, dotate di bagno e scrivania. La prima cosa che ho fatto dopo i prelievi è stata la doccia, non mi lavavo da giovedì sera, dopo mi sentivo rinata. Lunedì mattina mi svegliano prestissimo, verso le 5.30/6 passavano gli infermieri per misurarci la febbre, la pressione e la saturazione. Tutte le mattine mi lasciavo una pasticca sul comodino, era la protezione per lo stomaco.

In tarda mattinata mi spostano e mi mettono a medicina 1 perché non ero da subintensiva. Quando sono entrata nella stanza nuova ero felice perché c’era il balcone, ma ero disperata per la mia compagna di stanza, era molto pesante, per fortuna che il giorno dopo è uscita. Da martedì la mia “gioia” di stare li iniziava a scemare perché iniziavano a succedere cose strane. La mattina entra l’infermiera e mi chiede se avevo fatto il tampone quando sono arrivata li, io la guardo perplessa e le dico di si, lei annuisce e se ne va.
Chiamo subito mia madre e le racconto cosa era successo, perché nel momento in cui uno mi chiede una cosa del genere evidentemente c’è qualcosa che non va, visto e considerato che avrebbero dovuto avere i risultati di tutti i prelievi fatti. L’infermiera ritorna poco dopo scusandosi per l’accaduto e dicendomi che avrei dovuto rifare tutto perché il tampone ed i miei prelievi erano andati persi. Lei si scusa dicendomi che non era stata colpa sua visto che non me li aveva fatti lei. Nel primo pomeriggio la signora accanto a me è uscita, ma prima le hanno fatto fare la doccia ed hanno lasciato il bagno in condizioni pietose, c’era il pannolone aperto per terra, le asciugamani buttate a terra, la sedia con la quale l’hanno lavata in mezzo. Non potevo andare al bagno dalle 13.30, così alle 17 ho chiamato gli infermieri ed ho fatto presente le condizioni del bagno, nonché la mia impossibilità di poterlo utilizzare. Si scusano e nell’arco di un’ora puliscono il tutto. La sera non mi fanno la puntura alla pancia, così quando ho visto l’infermiere gli ho chiesto come mai e lui mi risponde che se una terapia non viene fatta è perché evidentemente è stata sospesa. Annuisco e ringrazio. La notte arriva una nuova compagna di stanza di 85 anni, la Sig. Maria. Mercoledì mattina mi svegliano come al solito per le solite rilevazioni, mi lasciano la solita pasticca per lo stomaco ma poi succede qualcosa, dopo un’ora mi lasciano un’altra pasticca. Chiedo all’infermiere di cosa si trattava e lui mi dice che era la pasticca che avevo in terapia, così gli spiego che la protezione per lo stomaco già l’avevo presa, ma lui mi spiega che non era quella, ma un’altra di cui non ricordo il nome. Insisto e spiego all’infermiere che io non avevo mai preso due pasticche, avevo in terapia una sola pasticca ed era la protezione dello stomaco, quindi chiedo se dalle rilevazioni e dalle analisi fosse emerso qualcosa che giustificasse l’assunzione di quella pasticca. Data la mia insistenza, l’infermiere decide di riprendersi la pasticca ed andare a verificare nuovamente la mia cartella clinica, dicendomi che sarebbe tornato di lì a poco. Quell’infermiere non è più tornato, non una parola sull’accaduto, a dimostrazione che quella pasticca non era per me ed io sto ancora qui a chiedermi di che pasticca si trattava e che cosa mi sarebbe potuto accadere qualora l’avessi assunta, magari niente, o magari qualcosa. La giornata procede con lentezza come al solito, li dentro il tempo non ti passa mai, senti la mancanza di tutto, e anche se sei in mezzo a tante persone ti senti sola come ad un cane. Nessuno ti capisce, nessuno ti ascolta veramente, tu sei un numero! La sera mi rendo conto che, a parte una volta, io non avevo mai visto il medico, quindi decido che il giorno dopo avrei preteso di parlarci perché io mi sentivo bene e volevo uscire da lì dentro. Giovedì in tarda mattinata passa il medico e si ferma, pronuncia il mio nome ed zompo dalla sedia. Mi ricordo ancora le sue parole “la signorina è bella pimpante quindi vediamo come sta”. Sfoglia la mia cartella clinica e mi dice che i miei valori erano nella norma quindi potevo essere dimessa. Non stavo nella pelle, pensavo stupidamente che di li a poche ore sarei potuta tornare a casa, ma invece ancora non avevo avevo capito niente. Il medico mi dice che finito il giro delle visite avrebbe compilato la lettera di dimissioni cosi il giorno dopo sarei potuta tornare a casa. Prima di cena, quando mi vengono a fare la puntura sulla pancia, mi rendo conto che non avevo fatto la solita flebo, così chiedo all’infermiere ed anche questo mi risponde come quello precedente, ovvero: “quando una terapia non viene fatta vuol dire che è stata sospesa”. Per me era tutto ok, li per li non stavo neanche pensando alle vicende precedenti, perché sapevo di essere in uscita quindi anche in quel caso ho preso per buona la risposta dell’infermiere.

Il giorno dopo non stavo nella pelle, ero convinta che di li a poco sarebbe arrivata un’infermiera per dirmi “preparati che ti stanno venendo a prendere”, non riuscivo neanche a fare il mio solito riposino perché avevo paura di non sentire l’infermiere che mi avrebbe chiamata. In tarda mattinata passa il medico, era una donna, e mi dice che aveva firmato la mia lettera di dimissioni, solo che per lei questa procedura di dimettere un paziente positivo asintomatico era nuova quindi doveva capire bene cosa fare, dunque le serviva del tempo. Mi ricordo che mi sono subito buttata giù di morale perché non ne filava una liscia. Sono quel genere di persona che quando si rattrista si arrabbia, quindi anziché deprimermi divento una bestia, tiro fuori solo rabbia. Dopo pranzo entra un infermiere e mi dice che dovevo fare la mia solita flebo! Ecco quello è stato il momento, il momento in cui sono diventata una bestia, ho cominciato a fare due più due, a mettere in ordine tutto quello che mi era successo, e mi dispiace tanto aver sbroccato a quell’infermiere tanto gentile, ma ero satura. Tornando alla flebo, quando lui mi ha detto così, ricordo solo che per trenta secondi mi si è annebbiato il cervello, ho visto tutto nero. Mi sono alzata, gli sono andata vicino e gli ho detto che il giorno prima io non avevo fatto la flebo e che l’infermiere di turno mi aveva detto che la mia flebo era stata sospesa. Lui, poverino, mi guarda e mi dice che aveva appena controllato ed io dovevo fare la terapia, quindi non capiva perché il giorno prima non me l’avevano fatta. Gli rispondo che non mi fidavo di quello che aveva visto e che volevo che andasse a ricontrollare per bene perché mi stavano stancando. Esce il silenzio e poco dopo torna mortificato dicendomi non metteva in dubbio le mie parole, però io dovevo fare la flebo perché ce l’avevo in terapia e che quello, tra l’altro, sarebbe stato l’ultimo giorno. Aggiunge anche che, la flebo del giorno prima sebbene non me l’avevano fatta era stata firmata. Acconsento, così, alla somministrazione della flebo, ma gli chiedo di parlare urgentemente con il medico di turno e sottolineo il fatto che se non mi avessero fatto parlare con il medico di turno avrei fatto un macello. Ho sottolineato questa cosa perché li dentro gli infermieri correvano costantemente a destra e a sinistra, e quando gli chiedevi qualcosa tagliavano corto dicendo: non c’è, ora non può, l’acqua è finita quindi attaccati al rubinetto, ci dispiace ma non si può. A volte penso che neanche ascoltavano quello che gli chiedevo, tagliavano corto e basta, nonostante non sono stata una persona che faceva chissà quali richieste. Le uniche richieste che facevo costantemente tutti i giorni erano quelle di poter usufruire del balcone della mia stanza, richiesta che, a parte una volta, mi è sempre stata negata, nonché di poter avere più bottigliette d’acqua perché due non mi bastavano. Anche in quest’ultimo caso è sempre stata una lotta, mi dicevano che non avevano acqua, infatti l’ultimo giorno che sono stata li ricordo di non aver bevuto dalle 6.30 di mattina fino alle 12. L’alternativa al non bere era bere l’acqua del bagno che usciva un pò bianca, acqua che mi era stata consigliata da un infermiera e alla quale avevo risposto dicendole che “l’acqua bianca del rubinetto bevitela te”.

Marion Olzai racconta la sua storia

Dopo un’oretta dalla mia richiesta di vedere il medico, quest’ultimo arriva! Inizio il discorso dicendogli che mi sentivo presa in giro da loro perché ero in uscita e non uscivo, così lui mi spiega che aveva firmato la lettera ma che stavano aspettando il 118 che mandasse l’ambulanza, quindi quello che loro potevano e dovevano fare l’avevano fatto. A quel punto lo interrompo dicendogli che si doveva mettere d’accordo con l’altra dottoressa allora, perché la mattina mi aveva detto che era stata lei a firmare le mie dimissioni, quindi chi è che aveva fatto questa lettera? Continuo il discorso facendo presente che si erano persi il tampone ed i prelievi, che avevano saltato due terapie, ovvero la puntura sulla pancia di martedì, la flebo di giovedì, nonché la doppia pasticca di mercoledì. La sua risposta? I prelievi ed il tampone non è colpa nostra, ma del laboratorio, per quanto riguarda le terapie sono cose che non dovrebbero accadere ma noi siamo pochi e voi siete tanti, quindi sebbene siano cose che, appunto, non dovrebbero accadere, all’atto pratico possono capitare.
Si, mi sono sfogata, ho detto quello che pensavo, ma ci sono rimasta come una cogliona perché credo che certe cose non dovrebbero e non devono capitare. Siamo umani e possiamo sbagliare, solo chi fa può sbagliare, ma se io fossi stata una persona allergica a quella pasticca e sopratutto se fossi stata una vecchia rincoglionita che prende per buono quello che dicono i medici a quest’ora potevo essere morta o potevo aver avuto uno shock anafilattico, a dimostrazione che queste cose non devono assolutamente accadere.
Il sabato mattina viene la dottoressa e mi dice che dovevo farmi la doccia e preparare le valige perché in giornata sarebbero venuti a prendermi per portarmi a casa. Chiamo subito mamma e nonna per comunicare ad entrambe la bella notizia, così loro da casa, vanno a farmi la spesa e a comprarmi l’occorrente per affrontare l’isolamento domiciliare. Ancora non sapevo quello che sarebbe successo realmente, quindi continuavo ad illudermi.
Passa la giornata e la serata ed io continuavo a stare li dentro, ad occupare un letto che poteva servire a qualcuno che stava male realmente, o comunque che stava più male di me. Questa cosa mi tormentava, mi mandava in bestia, perché io sono dovuta stare tre giorni buttata su una barella di un pronto soccorso schifoso ad aspettare che si liberasse un posto letto, mentre il quel momento mi ritrovavo ad occupare un letto che non mi serviva perché potevo continuare la terapia in isolamento domiciliare, mentre da qualche parte c’erano persone che stavano vivendo quello che avevo vissuto io, od anche peggio. Od anche peggio perché, non so quanto ci sia stato di vero in quello che il medico al quale ho sbroccato mi ha detto, fatto sta che a detta sua, presso l’ospedale universitario della Sapienza (non so quale sia di preciso) c’erano persone che, in attesa di un posto letto, erano state “ricoverate” momentaneamente nelle ambulanze. Lo schifo, tutto questo mi ha indignato e lo ha fatto ancora di più perché io sono riuscita ad uscire da quella clinica soltanto lunedì alle 14.00.
Domenica sera, parlando con mia madre, ci viene l’idea dell’ambulanza privata, quindi presa dall’euforia del momento chiamo un numero trovato su internet e parlo con una signora che mi dice: “si, facciamo questo tipo di trasferimenti”. La sera, quindi, vado a letto un pò felice perché avevo un’alternativa volendo, un pò preoccupata perché non sapevo quando costava l’ambulanza privata e sapevo che se l’avessi chiesto a mia mamma, visto come stavo, avrebbe pagato anche 1000 euro pur di farmi felice. Il lunedì mi sveglio alle 5.30, non riuscivo più a dormire, sapevo che se non facevo qualcosa per uscire da li, avrei continuato a starci per altri giorni. Cosa mi aveva spronato? Un infermiere! Si trattava di un infermiere che per due sere di fila aveva fatto la notte. Il sabato sera, dopo una crisi di pianto che avevo avuto, è venuto a prendersi un ciondolo per portarlo a mio padre che stava ricoverato in terapia intensiva al piano di sopra. Quel ciondolo era l’unica cosa loro che avevo, stringerlo giorno e notte mi faceva sentire più vicina a loro, mi dava la forza di andare avanti. Piangevo perché ero stanca, volevo sbattere la testa contro il muro, non riuscivo più a mantenere la calma li dentro perché quello non è un ricovero normale, quando sei un positivo covid entri in una realtà diversa, una realtà che se non la vivi sulla tua pelle non puoi capire. I carcerati stanno meglio perché loro hanno l’ora d’aria, tu no, tu non puoi affacciarti in corridoio, non puoi uscire in balcone, non puoi avvicinarti alla tua compagna di stanza. Il tuo unico compagno di viaggio è il tuo letto, puoi solo stare li ed aspettare e sperare che tutto passi in fretta. Avevo mio padre al piano di sopra, siamo stati vicini per 8 giorni, ma non siamo mai stati cosi distanti, io non lo potevo vedere, non mi facevano avvicinare a lui neanche da dietro il vetro. Mio padre è morto li dentro da solo ed io pur essendo stata ricoverata li con lui non ho potuto dirgli addio l’ultima volta. Avevo bisogno di fargli avere qualcosa di mio, avevo bisogno che lui sapesse che io ero li con lui, quindi non potendo avere me, volevo avesse quanto meno il mio ciondolo portafortuna. Quell’infermiere domenica sera mi ha detto: “ma tu stai ancora qua?” Quando gli ho spiegato la situazione mi ha detto chiama i carabinieri, fatti sentire perché tu hai carattere quindi tiralo fuori.
Lui mi ha dato la grinta per fare qualcosa! Lunedì mattina alle 7 decido che era il momento di iniziare a fare rumore. Non potendo uscire dalla stanza, metto solo la testa fuori e guardo i due infermieri che avevano appena cominciato il turno e gli chiedo se c’era un medico si turno od un responsabile, come al solito mi rispondono che non c’era nessuno, sarebbero arrivati alle 10.30.

Sapevo, ovviamente, che era una cazzata, non può essere che in un reparto non ci sia un responsabile di turno, quindi me li guardo e gli dico “ok, preparatevi perché oggi io uscirò da qui e per farlo dovrò fare casino”.
Entro dentro e chiamo nuovamente l’ambulanza privata e chiedo info sui costi e tempi di trasferimento, mi dicono che l’ambulanza costava circa 250 euro ed il trasferimento era abbastanza rapido, solo che dovevo aspettare l’ok del medico. Visto quello che mi avevano detto gli infermieri, capisco che era inutile tentare nuovamente, quindi chiamo i carabinieri per vedere se potevano intervenire, ma la signora che mi ha risposto mi ha detto che non c’erano gli estremi per intervenire perché comunque non è che mi tenevano sequestrata. Mi ha detto anche che non era il primo caso come il mio che sentiva, quindi mi ha consigliato di chiamare il centralino della clinica e di farmi chiamare il medico o caposala perché appunto doveva esserci per forza qualcuno. Attacco e chiamo il centralino che, ovviamente, mi dice che c’era la caposala di turno, bastava che chiedevo agli infermieri di chiamarmela. Insisto e dico alla centralinista che la mia pazienza era arrivata al limite però la caposala doveva chiamarmela lei perché gli infermieri non me l’avrebbero chiamata, altrimenti avrei fatto in modo di riempire l’ospedale pieno di carabinieri. Dopo 15 min arriva la caposala, si scusa per la situazione, e mi dice che potevo uscire con l’ambulanza privata.
Soddisfatta richiamo mia madre che mi dice se potevo aspettare perché conosceva un tizio che nella nostra città aveva le ambulanze, quindi magari chiedeva prima a lui. Nell’attesa vengo a sapere che l’altra signora che, come me, era in uscita da venerdì sarebbe uscita in giornata perché il 118 aveva trovato il mezzo per portarla a casa. Ho rosicato! Decido di fare un reclamo attraverso il sito internet e poco dopo vengo contattata dal direttore sanitario che mi dice di non aver colpe al riguardo, mi dice che non potevo prendermela con lui. Gli rispondo che dopo aver chiamato il 118, la asl di Latina e i carabinieri e non potendo chiamare il Presidente della Repubblica in persona, lui, in veste di direttore sanitario della struttura presso la quale ero ricoverata era tenuto a sentirsi le mie lamentele perché la situazione in cui io mi trovavo era una situazione vergognosa. Non ci sono posti letto per ricoverare i malati, le terapie vengono saltate, i prelievi persi, e non ci sono mezzi per poter trasferire coloro che stanno meglio presso la loro abitazione. Gli dico, in sintesi, che questo sistema sanitario è uno schifo.
Nel frattempo che aspettavo mia madre la signora accanto a me si era aggravata nuovamente, già il giorno prima la stavano perdendo e sono duetti intervenire con me in stanza, l’hanno presa per i capelli. Alle 13.00 sblocco nuovamente, chiamo il servizio di ambulanza privata che avevo contatto la mattina e gli chiedo esattamente il costo del servizio, compreso la santificazione ed entro quanto mi sarebbero venuti a prendere. Prendiamo appuntamento per le 14.00.
Alle 14.10 riesco finalmente a salire sull’ambulanza e arrivo a casa alle 14.45 circa, giusto in tempo ad entrare dentro casa che l’ospedale chiama per dirci che mio padre era appena morto.
Non è stato facile per me scrivere questa cosa, ripercorrere passo passo quello che mi è successo, perché ho provato delle emozioni mai provato fino ad ora. Ho vissuto un’esperienza che non auguro a nessuno. Ho saputo della morte di mio padre da mia mia madre, era appena andata via perché io durante il viaggio di ritorno non mi sono sentita bene quindi avevo bisogno di sdraiarmi, lei era da poco andata via ed è dovuta tornare indietro per suonarmi con la macchina ed aspettare che io mi affacciassi dalla porta per dirmi: “non ce l’ha fatta”. Essendo positiva non potevo avvicinarmi a lei, né a nessun altro, mi ricordo che mi sono buttata per terra e mi sono abbracciata la porta di casa, avevo una gamba fuori ed una dentro ed ho continuato ad abbracciarmi la porta di casa per le ore successive.
Un amico di famiglia si è occupato di contattare prima l’ospedale e poi il medico di famiglia per prendermi le medicine che mi servivano, dovevo continuare con le punture di cortisone, quelle sulla pancia e con la protezione per lo stomaco. Anche qui devo ringraziare i soldi di mia madre perché le punture sulla pancia costano 33,50 euro (conf da 6), perché per queste bisogna fare una richiesta via mail ed aspettare che ti inviano la ricetta, ad oggi, 29 ottobre (perché è passata la mezzanotte) sto ancora aspettando. Grazie ad una ragazzo della croce rossa che il 21 ottobre mi ha messo il tampone molecolare in urgenza, sono riuscita ad ottenere i risultati il 22 ottobre mattina, il pomeriggio c’era il funerale di mio padre. Chiamo la asl comunicando l’esito negativo del tampone e chiedo se potevo uscire, mi viene detto che in base al nuovo decreto si poteva uscire con il primo
tampone negativo, quindi vado al funerale. Il giorno successivo chiamo il medico di famiglia e gli dico di essere risultata negativa, ma lui non c’era, c’era il sostituto che mi dice di chiamare la asl o l’ospedale dove ero ricoverata perché lui non poteva e doveva fare niente. Richiamo la asl e gli dico cosa mi aveva detto il sostituto del mio medico, il ragazzo che mi ha risposto si mette a ridere e dice che spettava a lui fare la scheda seresmi (mi pare si chiama così). Il 27 decido di andare dal medico, sperando di trovare lui e non il sostituto, e fortunatamente lo trovo. Gli spiego la vicenda e mi dice che sarebbe entrato nel portale per sistemare il tutto. Oggi sono andata dal medico perché mi rendo conto che non sto bene, quindi volevo sapere se poteva prescrivermi qualche integratore ed insieme decidiamo anche di fare ulteriori controlli: visita dal cardiologo, visto che in ospedale mi hanno trovato una lieve pericardite, visita infettivologica e lastra al torace. Farò tutto privatamente perché posso permettermelo e non posso aspettare i comodi della asl.
Questa sera esco per andare in farmacia, erano le 21.20 circa quando la polizia ferma me e mio fratello, entrambi con la mascherina in macchina perché ormai terrorizzati da questo coronavirus, quindi facciamo anche una buona impressione ai poliziotti! Prendono i nostri documenti, guardano bene quello di mio fratello perché per sbaglio gli dà la patente araba (lui lavora a Riyad) e poco dopo uno di loro si avvicina a me rimanendo a debita distanza e guardandomi negli occhi con una faccia stranissima mi dice “ma tu stai in quarantena, cioè tu sei positiva”. Io scioccata! Gli dico che si stava sbagliando, gli tiro fuori il referto che per fortuna avevo sul telefono, gli faccio vedere che sono negativa dal 22 ottobre. Mi chiede di inviargli il referto sulla sua mail, poi prende il telefono e fa una foto al referto che avevo sul mio telefono. Torna dal suo collega e continuano a parlare, poi torna nuovamente da me e mi dice che il portale non è aggiornato e che io sarei dovuta stare in quarantena fino alle mezzanotte del 28 ottobre, insomma potevo uscire dal 29 ottobre. Lo guardo sempre più sbigottita e gli dico che io avevo parlato più volte sia con la asl che con il mio medico, ed entrambi mi avevano detto che potevo uscire, quindi gli dico che sono disperata perché non riesco a capire nulla di tutta questa situazione. Lui mi guarda e mi dice che sa benissimo di cosa sto parlando, stiamo nella merda!
Ci rendiamo conto che ognuno dice la sua e non si segue una linea logica? Non si capisce niente, io non ho capito se potevo uscire o meno, a chi devo dare retta? Qual è la verità?
Mi dicono di non prendermela con i medici che mi hanno saltato le terapie, che mi davano pasticche in più o che si sono persi i prelievi, perché loro sono pochi e stanchi, ma io con chi devo prendermela?
A quante persone è capitato o capiterà quello che è successo a me? Quante saranno fortunate come me?
Chi mi dice che mio padre è stato curato nel migliore dei modi? Con me hanno fatto molti errori!
Quante persone staranno aspettando da giorni di essere trasferite a casa e quante ancora staranno buttate su una barella senza coperta né acqua?
Come rimediare a tutto questo?
Hanno disposto la chiusura dei locali anticipata, quando in realtà basterebbero veramente dei seri controlli per garantire il rispetto delle misure di sicurezza. Ci servono dei controlli più severi, e servono rinforzi negli ospedali perché di questo passo i medici continueranno a sbagliare. Servono mezzi che portino le persone a casa perché i posti letto ora sono preziosi e non tutti possono permettersi delle ambulanze private. Serve la giusta informazione perché a me nessuno aveva detto di poter utilizzare un’ambulanza privata, se non fosse stato per mia madre neanche ci avrei pensato io!
Servono le coperte cazzo! Non si può stare senza coperte, ci siamo morti di freddo e c’è sicuramente gente che adesso si starà morendo di freddo! Servono mascherine perché in ospedale ne hanno poche e non te le danno, ma ti obbligano a tenere la tua tutta inumidita che non serve a un cavolo arrivata ad un certo punto perché non serve a  niente.  Uso papà, ti porterò io la coperta prima o poi.

Marion Olzai

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