La piaga degli influencer europei che fanno pubblicità senza dichiararlo

È un grande tema: la mancanza di aderenza alle normative che prevedono la dichiarazione e l'esplicitazione della collaborazione pubblicitaria. Eppure, in Europa tutti vogliono essere content creator

19/02/2024 di Gianmichele Laino

Da un lato c’è il dato dell’Osservatorio Nazionale sull’Influencer Marketing che – stabilendo alcuni criteri come l’età minima di 18 anni e il numero di followers superiore a mille – ha stabilito che, nel nostro Paese, per ogni 100 utenti di internet, il 2,22% prova a essere un influencer. Dall’altro lato, c’è un dato che emerge da una analisi condotta in seno alla Commissione Europea, insieme alle autorità nazionali per la tutela dei consumatori: quest’ultima ha stabilito che il 97% degli influencer in Europa stringono partnership commerciali, ma solo il 20% di questi le dichiara sempre. Va da sé che ci troviamo di fronte a una grandissima contraddizione: da una parte c’è un’attività ambitissima, a cui tutti aspirano per una ragione o per l’altra; ma, al contrario, c’è scarsa consapevolezza dei doveri di questa attività che, essendo a tutti gli effetti commerciali, deve prevedere delle regole d’ingaggio.

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Influencer non dichiarano l’adv: cosa sta succedendo nel mercato del marketing social

Non è emerso soltanto questo dall’analisi della Commissione Europea: i funzionari e le autorità di tutela dei consumatori hanno rilevato che i principali settori di attività interessati dalle partnership tra content creator e brand sono, in ordine decrescente, moda, lifestyle, bellezza, alimentazione, viaggi e fitness/sport. Tuttavia, nel corso dell’analisi è emerso che 119 influencer promuovano attività malsane o pericolose, come cibo spazzatura, bevande alcoliche, trattamenti medici o estetici, gioco d’azzardo o servizi finanziari come il trading di criptovalute.

Dunque, non c’è soltanto l’aggravante del fatto di non dichiarare una collaborazione sponsorizzata, ma c’è persino l’elemento della promozione di prodotti contrari a quella che potrebbe essere genericamente definita come “salute pubblica”. Il tutto in un ecosistema, quello dei social network, che fa costante brand-washing attraverso iniziative pubbliche per – ad esempio – la corretta nutrizione, la lotta al gioco d’azzardo, la lotta agli schemi Ponzi.

Ma c’è un elemento in più. Il diritto comunitario dei consumatori prevede che le partnership commerciali debbano essere trasparenti. Nei loro post, gli influencer dovrebbero fare una attenta selezione dei messaggi promozionali da diffondere, evitando che l’interesse economico superi quello informativo: insomma, no a informazioni false o fuorvianti sul prodotto, soltanto per onorare il contratto pubblicitario. Qualsiasi promozione dei prodotti o servizi di un marchio in un post che generi ricavi dall’influencer o altri tipi di vantaggi deve essere dichiarata come attività pubblicitaria, grazie all’ormai famoso (quanto poco utilizzato) hashtag #adv. Insomma, la legge c’è. Gli influencer hanno a disposizione diverse piattaforme per esserne informati (si pensi, ad esempio, al recente lancio dell’Influencer Legal Hub). Tuttavia, i numeri dei creator che aggirano tutto questo stanno aumentando in maniera esponenziale in Europa: che sia ora di intervenire con delle sanzioni che siano strutturali e non legate a singoli casi specifici (e dall’alto clamore mediatico)?

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