Vi spieghiamo una Cina, due sistemi e il concetto di “democrazia” a Hong Kong

Il primo luglio è stata una lunga giornata di proteste a Hong Kong, forse l’ultima di una lunga serie. La festa nazionale segna il passaggio di sovranità del territorio dal Regno Unito alla Cina nel 1997. Dopo 156 anni, la città era tornata a far parte della Cina, non più un impero, come quando nel 1841 l’aveva dovuta cedere al governo britannico in seguito alla prima guerra dell’oppio, ma una superpotenza mondiale dominata da un regime autocratico e da un singolo partito. Nella Repubblica Popolare Cinese, infatti, la democrazia, intesa come sistema governativo, non è mai esistita – e neanche a Hong Kong.

Le proteste contro il governo di Carrie Lam del primo luglio, motivate soprattutto dall’entrata in vigore della nuova legge di Sicurezza nazionale, sono parte di un movimento democratico che ha causato manifestazioni di massa per più di un anno. Lo stesso che ha ispirato la Rivoluzione degli ombrelli del 2014 e delle marce del 2003. Gli obiettivi del movimento, dei suoi vari leader, partiti ed enti, variano, con una piccola parte secessionista che supporta l’indipendenza del territorio e sogna un modello città-stato, altri, come Joshua Wong, che vorrebbero un vero e proprio sistema elettorale democratico e il suffragio universale e la maggior parte dei sostenitori ed esponenti, che chiedono, o meglio chiedevano, che il contratto Una Cina, due sistemi, venisse rispettato da Pechino.

Di fatto, l’idea di Hong Kong come una società libera con un sistema giudiziario indipendente e una mini-costituzione, è basato su questo principio architettato e messo a contratto nel 1997, ma non su un sistema democratico vero e proprio, come è stato erroneamente fatto intendere da alcuni gruppi di estrema destra sovranisti “difensori” di Hong Kong dall’estero.

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Il sistema unico di Hong Kong, spiegato

Durante l’era coloniale, ovviamente, i cittadini di Hong Kong non hanno mai eletto i loro leader, o preso parte ad alcun tipo di processo politico vero e proprio. Tuttavia, è durante quei decenni, soprattutto negli anni 80 e 90, che è emerso il modello Hong Kong, ovvero una società in cui diritti civili di base, come libertà di stampa ed espressione, sono garantiti, basata sul capitalismo e culturalmente aperta al mondo, spesso definita un ibrido perfetto tra oriente e occidente. In più, la sua importanza finanziaria l’ha resa da sempre una città cosmopolita e una delle società contemporanee più di successo e all’avanguardia.

Un po’ per mancanza di curiosità e un po’ perché quando la violenza delle proteste lascia gli schermi e le testate internazionali, l’interesse generale verso Hong Kong tende a diminuire – o scomparire – il sistema politico della regione non è molto conosciuto o realmente compreso all’estero.

La politica di Hong Kong ruota intorno alla “Basic Law”, la sua mini costituzione e alla sua interpretazione. Il consiglio legislativo della regione amministrativa (LegCo), ovvero il parlamento locale, è eletto per metà dai cittadini tramite un sistema proporzionale, e per metà indirettamente da collegi professionali. Di fatto, la divisione tra destra e sinistra non esiste, i partiti si dividono in pro Cina e pro democrazia.

Essenzialmente, l’elezione del capo esecutivo di Hong Kong, ovvero il leader della regione, è controllata da Pechino tramite un sistema indiretto e con la pre approvazione del candidati. Secondo “Una Cina, due sistemi”, l’interferenza del governo cinese ha parecchi limiti, tra cui, principalmente, l’indipendenza del sistema giudiziario, che sono stati violati nel corso degli anni. L’approvazione della legge di Sicurezza nazionale, che prevede la soppressione di qualsiasi tipo di dissenso politico verso il regime centrale, è l’evoluzione più significativa dal 1997.

Gli slogan sovranisti che riducono Hong Kong all’ennesima missione autocelebrativa dell’Occidente

È complicato spiegare che cosa significa essere un “Hong Konger” o lottare per il futuro di Hong Kong ma è sicuramente troppo semplicistico ridurlo a degli slogan sovranisti e nazionalistici. Il caso del territorio è stato inevitabilmente strumentalizzato nel contesto internazionale e soprattutto nella lotta, a colpi di sanzioni e accuse reciproche, tra Washington e Pechino.

Molti intellettuali, accademici, politici e cittadini di Hong Kong, infatti, pur sopportando la causa pro democratica, hanno ripetutamente esortato i manifestanti a non chiedere aiuto all’amministrazione di Donald Trump e ai suoi alleati in Europa e a non sventolare le bandiere statunitensi nelle strade. Durante la sua presidenza, infatti, in pieno stile sovranista e populista, Trump non ha fatto altro che demonizzare la stampa cercando di reprimere qualsiasi tipo di opposizione diffondendo fake news, contribuendo all’erosione dei valori che dovrebbero essere alla base delle democrazie occidentali.

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