Il caso Google che fa monetizzare siti che disinformano con l’intelligenza artificiale
Un'evidenza messa in mostra dall'ultimo report di NewsGuard. Eppure, sia la policy dell'azienda che il "Codice di condotta sulla disinformazione" vietano questo tipo di comportamento
26/06/2023 di Enzo Boldi
Mountain View, abbiamo un problema. Un enorme problema. Il caso sollevato dall’ultimo report di NewsGuard ha messo l’accento sul ruolo del più grande attore della pubblicità digitale e i portali che – attraverso l’utilizzo non etico e incontrollato degli strumenti di intelligenza artificiale generativa – diffondono disinformazione online. Lo studio, infatti, mostra come buona parte degli annunci su quelle piattaforme – in termini di monetizzazione basata sulle metriche adv – sia “gestito” da Google che, dunque, alimenterebbe i cosiddetti siti UAIN.
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UAIN non è altro che l’acronimo di Unreliable Artificial Intelligence-Generated News, ovvero quei siti tra le cui pagine si trovano contenuti inaffidabili (in questo caso parliamo del settore dell’informazione) generati attraverso i sistemi e le tecnologie di intelligenza artificiale. Insomma, quei portali che ospitano esclusivamente “notizie” che possono esser state “create” dagli strumenti di AI come ChatGPT. Intelligenza artificiale che – per via di molti fattori – non è affidabile. Anzi, spesso è fallace.
Google siti UAIN, come si alimenta la disinformazione
Lo studio di NewsGuard ha messo in evidenza come grandi brand – attraverso la pubblicità programmatica – stiano alimentando questi siti UAIN, in modo completamente inconsapevole. Un enorme problema, ma secondario rispetto al ruolo dell’attore protagonista della gestione degli adv online. Perché la maggior parte degli annunci di questo tipo sono gestiti e forniti proprio da Google. E i numeri sono impietosi:
«Più del 90% degli annunci identificati da NewsGuard – 356 su 393 – sono stati inseriti da Google Ads, la più grande piattaforma pubblicitaria online, che lo scorso anno ha generato 168 miliardi di dollari di entrate solo dalla pubblicità online».
Un campanello d’allarme fortissimo, soprattutto perché i siti UAIN sono in costante crescita, con la creazione di contenuti che vengono automaticamente generati dall’intelligenza artificiale senza (praticamente) alcun controllo umano sulla veridicità di quanto si pubblica online. E per chi si cela dietro questi portali, la monetizzazione attraverso Google è piuttosto semplice: basta creare un sito, attendere le settimane necessarie, ricevere il codice AdSense e iniziare a guadagnare – proporzionalmente – attraverso le visualizzazioni ottenute dalle singole pagine.
Eppure, tutto ciò è contrario alla policy di Google per quel che riguarda le pubblicità e la monetizzazione attraverso i widget e i banner. Perché, nello specifico, la stessa azienda spiega che non si può monetizzare su portali che ospitano «contenuti di spam generati automaticamente sono contenuti che sono stati creati in modo programmatico senza produrre nulla di originale o apportare un valore aggiunto sufficiente; invece, sono stati generati principalmente per manipolare i ranking di ricerca e non al fine di aiutare gli utenti». E, per essere ancora più chiari, ecco l’elenco di cosa non può rientrare all’interno della monetizzazione pubblicitaria:
- Testo che non ha senso per il lettore, ma contiene parole chiave per la rete di ricerca.
- Testo tradotto da uno strumento automatico senza revisione umana o selezione prima della pubblicazione.
- Testo generato tramite processi automatizzati, senza tenere conto della qualità o dell’esperienza utente.
- Testo generato utilizzando tecniche di creazione di sinonimi, parafrasi o di offuscamento automatizzate.
- Testo generato mediante appropriazione di feed o risultati di ricerca.
- Aggregazione o combinazione di contenuti provenienti da pagine web differenti senza apporto di un valore aggiunto sufficiente.
Dunque, anche i portali che ospitano contenuti generati dall’intelligenza artificiale devono necessariamente essere esclusi da questo rapporto commerciale di monetizzazione. Eppure, il rapporto Google-siti UAIN sembra non essere toccato – come evidenziato da NewsGuard – dalle stesse regole dell’azienda (a cui è stato chiesto un commento dagli stessi ricercatori, non ricevendo ancora una risposta ufficiale se non la richiesta di inviare materiale più approfondito per procedere con un’analisi interna).
E il codice di condotta contro le fake news?
Ed è qui che entra in ballo un’altra problematica. Nel corso delle scorse settimane, abbiamo più volte parlato della scelta di Elon Musk di rimuovere Twitter dai firmatari (a titolo volontario) del “Codice di condotta sulla disinformazione“. Scorrendo tra i firmatari, troviamo anche Google. Dunque, come è possibile aderire a un auto-regolamento (in attesa dell’inizio delle attività di verifica, il prossimo 25 agosto, legato al Digital Service Act) se poi si “alimentano” attraverso introiti pubblicitari siti non affidabili che diffondono non solo contenuti non generati dall’essere umano, ma anche intrisi di fake news e disinformazione? Perché c’è un passaggio fondamentale all’interno di quel documento:
«Il codice rafforzato mira a garantire che i fornitori di disinformazione non beneficino dei proventi pubblicitari. I firmatari si impegnano a misure più severe per evitare il collocamento della pubblicità accanto alla disinformazione, nonché la diffusione di pubblicità contenenti disinformazione. Il codice istituisce inoltre una cooperazione più efficace tra gli attori del settore pubblicitario, consentendo un’azione congiunta più forte».
Dunque, non dovrebbe esserci spazio per la monetizzazione di siti che ospitano contenuti non affidabili. E Google ha scelto in autonomia di partecipare a quel tavolo. Stando alle risultanze, però, le cose stanno andando in un altro modo.