Il 6 marzo Conte era «pronto a firmare» per le zone rosse, poi la situazione peggiorò

13/06/2020 di Redazione

Giuseppe Conte, il 6 marzo, si recò in Protezione Civile «pronto a firmare» il decreto per l’istituzione delle zone rosse di Alzano e Nembro. Ma, nel corso della riunione con i tecnici di quel giorno, emerse una situazione più grave della precedente e si avviò l’iter per chiudere tutta la Regione Lombardia e 13 altre province fuori dai suoi confini, arrivata nella notte tra il 7 e l’8 marzo. È questo il vero dettaglio inedito che è emerso, nei retroscena di Palazzo Chigi, all’indomani dell’audizione che il presidente del Consiglio ha avuto con la pm Maria Cristina Rota della procura di Bergamo.

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Firma Conte per le zone rosse pronta il 6 marzo, poi la svolta

In quella data, Giuseppe Conte, insieme al ministro Roberto Speranza, si convinse della necessità di una misura più drastica, effettivamente istituita soltanto qualche ora dopo, in seguito agli opportuni accertamenti che non hanno preso solo in considerazione le evidenze epidemiologiche, ma anche quelle che un decisore politico deve affrontare e che a esse sono collaterali.

Un punto centrale, che dovrebbe contribuire a fare chiarezza sul ruolo dell’esecutivo nella gestione delle prime fasi dell’emergenza coronavirus. E che, in ogni caso – come qualsiasi altra decisione -, Giuseppe Conte dice di aver condiviso con la Regione Lombardia che, volendo, avrebbe potuto istituire delle zone rosse ad Alzano e Nembro, come da legge sulla competenza territoriale delle regioni.

Firma Conte, cosa ha fatto cambiare idea

Resta da capire la catena di comando dalla prima segnalazione del Comitato tecnico-scientifico del 3 marzo (che sottolineava lo stato critico di Alzano e Nembro) e la riunione alla Protezione Civile del 6 marzo. In tre giorni, Giuseppe Conte ha prima approfondito la questione – nella giornata del 4 marzo -, poi ha mobilitato, insieme al ministro Luciana Lamorgese, l’esercito (decisione anche questa rivendicata dal premier per far capire come si fosse agito in coscienza e senza escludere soluzioni) il 5 marzo, infine il 6 marzo – quando tutto sembrava pronto per la firma sulle zone rosse – il quadro mutato che ha imposto un restringimento delle libertà personali che riguardasse un territorio più ampio.

In ogni caso, è questa l’analisi dei pm, occorrerà stabilire se questo lasso di tempo abbia potuto in qualche modo peggiorare la diffusione del contagio. Ma il nesso è molto difficile da dimostrare. Lo ha detto ai microfoni di Giornalettismo anche Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: «Difficile – ha detto Cartabellotta – stimare in termini quantitativi l’impatto di una mancata decisione. Purtroppo ancora una volta la legislazione concorrente tra Governo-Regioni sulla tutela della salute dimostra tutti i suoi limiti con episodi che arrivano sino alla Corte Costituzionale».

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