L’equo compenso per gli editori ha spinto i colossi di Big Tech a investire su aggregatori di news basati sull’AI

Al di là, poi, delle specifiche che verranno regolamentate dalle apposite normative in materia di intelligenza artificiale, la sensazione è che le grandi aziende del digitale abbiano sempre un passo di vantaggio

06/11/2023 di Gianmichele Laino

La questione dell’equo compenso delle grandi aziende di Big Tech agli editori per lo sfruttamento dei loro contenuti è un tema che non riguarda esclusivamente l’Unione Europea (che, comunque, ha fatto entrare in vigore la sua normativa sul copyright), ma che – in passato – ha coinvolto anche altri Paesi del mondo, a partire dall’Australia (dove un braccio di ferro su questo aspetto ha portato, per alcuni giorni, Facebook a eliminare tutte le notizie dei vari editori dal feed degli utenti). Insomma, dappertutto nel mondo ci si è chiesti se gli estratti brevi che Google, Microsoft, Facebook, Twitter pubblicano sulle loro piattaforme e che provengono dal lavoro di editori e testate giornalistiche non debbano essere coperti da un adeguato compenso per il lavoro svolto. Questo, ovviamente, al di là della semplice visibilità che le piattaforme social comunque garantiscono ai contenuti editoriali. Il tema è stato più volte sul tavolo dei legislatori: in Europa è finita all’interno della legge sul copyright e i vari Paesi l’hanno recepita secondo le rispettive sensibilità. In Italia, ad esempio, è stato approvato un regolamento dell’Agcom – che è entrato in vigore a febbraio 2023, ma che ha ancora scarse applicazioni – che prevede una vera e propria procedura tra editore e piattaforma di Big Tech per riconoscere il giusto valore al lavoro giornalistico e contenutistico originale.

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Equo compenso e AI, come si sono regolate le grandi aziende di Big Tech

Prima dell’esplosione delle varie applicazioni dell’intelligenza artificiale, le grandi aziende di Big Tech avevano trovato una scorciatoia a proposito dell’equo compenso. Si erano, cioè, accaparrate il consenso delle grandi concentrazioni editoriali, di quelle più rappresentative, di quelle più popolari, firmando – in separata sede – degli accordi che potessero essere vantaggiosi per entrambe le parti in causa. Tuttavia, con la grandissima diffusione dell’AI generativa, una volta prese in considerazione le possibili declinazioni di strumenti come ChatGPT e simili, la sensazione è che, dal punto di vista delle notizie, le grandi aziende che si occupano di servizi digitali riescano addirittura a fare a meno delle grandi concentrazioni editoriali.

Ovviamente, non si è arrivati ancora a un grado di indipendenza e di emancipazione formale. Il caso di Start di Microsoft e l’affaire Guardian suggeriscono che c’è ancora moltissima strada da fare per rendere gli strumenti di intelligenza artificiale definitivamente autonomi nella produzione di contenuti giornalistici. Oggi, le due cose – lavoro umano di giornalisti ed editori e piattaforme di AI – convivono o provano a farlo, senza che manchino tuttavia delle deviazioni e delle esagerazioni da una parte e dall’altra nell’impiego degli strumenti a disposizione. Può capitare, insomma, che una notizia di cronaca nera sia accompagnata da un sondaggio autogenerato che chiede ai lettori se, secondo loro, la donna vittima del caso di cronaca si sia suicidata, sia stata uccisa oppure sia stata vittima di un incidente. Può capitare che una guida turistica della città di Ottawa suggerisca agli utenti di visitare il banco alimentare della capitale canadese “a stomaco vuoto”. Tuttavia, questi contenuti sono sempre mediati dal lavoro dell’intelligenza artificiale sulle grandi testate giornalistiche.

Eppure, la sensazione è che i nuovi aggregatori di notizie (che possono avvalersi dell’intelligenza artificiale generativa e non più soltanto di un algoritmo per mettere insieme contenuti provenienti da più fonti) possano essere una leva per aggirare le norme che, in tutto il mondo, impongono alle grandi piattaforme di Big Tech a pagare un equo compenso agli editori. Uno strumento che non aggregherà più notizie, ma che le produrrà da sé attraverso chatbot o tecniche similari, infatti, rappresenta una evidente scappatoia rispetto alla dipendenza tra le piattaforme digitali e gli editori nel settore delle notizie.

Certo, poi, le norme che regoleranno i sistemi di intelligenza artificiale potranno intervenire – sempre a livello di copyright – sulla possibilità che le piattaforme di AI utilizzino, per il loro addestramento, dei testi prodotti dagli editori e dai siti di news. Ma si capisce anche che la verifica della quantità di fonti utilizzate per il training degli strumenti di AI è praticamente impossibile a un livello generale e si capisce anche che, fino all’approvazione di una normativa organica e globale su questi strumenti, sia molto facile per le grandi piattaforme del digitale aggirare l’ostacolo. E anche se una normativa andasse a intervenire, nello specifico, sulla violazione del copyright per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale, forse arriverebbe troppo tardi: le Big Tech, per quell’epoca, avrebbero già trovato un escamotage per mantenere e consolidare il proprio vantaggio sul legislatore.

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