L’eterno dilemma tra il diritto alla privacy e le nostre “necessità” quotidiane
Spesso e volentieri ci troviamo di fronte a delle scelte che appaiono come incomprensibili ostacoli. Ma tutelare i nostri dati (anche online) è fondamentale
12/01/2024 di Enzo Boldi
Ci iscriviamo a portali online, scarichiamo e utilizziamo app senza leggere l’informativa privacy. Compiliamo form (fisici o sul web) per ottenere card commerciali per accumulare punti o sconti. Mettiamo una “firma” su una petizione online, lasciando lì i nostri contatti senza sapere cosa ne sarà dei nostri dati. Ci opponiamo a tutto quello che sembra poter rallentare le nostre vite frenetiche, soprattutto nel nostro mondo sempre più digitale, calpestando il nostro diritto alla privacy in nome della “velocità”. Tutto ciò porta a un eterno dilemma su cosa sia realmente necessario, spesso contestando scelte (anche legislative) che mirano a tutelare la sicurezza della nostra “riservatezza”.
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Oggi Giornalettismo ha deciso di raccontare una storia tutta italiana, che parte da una lentezza burocratica nell’applicazione di norme esistenti e si trasforma, ben presto, nella voglia di non avere i bastoni tra le ruote. Il caso sollevato da Mariano Cirino sull’impossibilità di ricevere – come previsto dalla legge – comunicazioni su multe e sanzioni via PEC va ben oltre la scarsa velocità con cui il Comune di Roma nell’applicare le funzionalità del Domicilio Digitale (INAD). Perché se il problema è a monte (quindi relativamente all’amministrazione capitolina), nelle pieghe delle polemiche c’è la difficoltà (da parte di molte persone che hanno commentato sui social questa vicenda) di comprendere come siano nostro dovere pretendere il rispetto del nostro diritto alla privacy.
Il diritto alla privacy è fondamentale, ma difficile da capire
Un caso piuttosto emblematico. Al netto delle lacune di Roma Capitale, all’interno della lettera di risposta inviata a Mariano Cirino ci sono molti dettagli che richiamano proprio le norme sulla privacy dei cittadini. In pratica, il Comune sottolinea come sia stato impossibile (a causa dei ritardi) procedere con l’invio di una multa via PEC professionale perché, per la sua natura (per l’appunto) professionale, potrebbero accedere al cliente di posta certificata altre persone. Anche incaricate dalla stessa persone titolare di quell’indirizzo. Facciamo un esempio: un professionista potrebbe aver consegnato (volontariamente) a un segretario il proprio nome utente e password per la lettura delle PEC. E, fino a qui, nulla di male trattandosi di lavoro.
La problematica della privacy, invece, si solleva quando su quella PEC si ricevono anche comunicazioni strettamente personali. In questo caso, una multa o una sanzione. Trattandosi di informazioni che, per definizione, dovrebbero essere consegnate esclusivamente alla persona titolare del domicilio, diventa impossibile etichettare una PEC professionale come domicilio digitale per ricevere questa tipologia di notifica perché anche altre persone potrebbero leggere il contenuto. Senza autorizzazione (anche se in possesso di username e password).
Sì, sembra un paradosso che ostacola la velocità con cui affrontiamo le nostre vite. Anzi, un paradosso rispetto a quella velocità imposta dal mondo sempre più digitale che ci ha abituato ad avere tutto e subito. Con un solo click. Spesso non leggendo dettagli, informative e policy che, poi ci si ritorcono contro. E per questo mettiamo sullo stesso piano questa “contestazione” del Garante Privacy e la possibilità che una multa, inviata tramite raccomandata “tradizionale”, possa essere ritirata da una persona diversa dal destinatario. Ovviamente, non si tratta della stessa cosa: se qualcun altro ritira una raccomandata a nome nostro, non potrebbe/dovrebbe aprirla senza la nostra autorizzazione. Con la PEC professionale il paradigma è diverso: basta cliccare sulla mail ricevuta per visualizzare anche il contenuto. Anche se non si ha l’autorizzazione, visto che “cedere” username e password per quel che riguarda le comunicazioni professionali non equivale a concederla per visualizzare “posta personale”.
Il dovere di pretendere i nostri diritti
I nostri dati, i nostri riferimenti, le nostre abitudini. Questa vicenda deve necessariamente portare a una riflessione profonda sul nostro diritto alla privacy. Come detto, buona parte delle “colpe” le ha l’amministrazione capitolina che ancora non è stata in grado di adeguarsi alle normative, dopo il parere dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali sul caso delle PEC professionali e l’accesso, da parte di INAD, al registro INI-PEC (l’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata di imprese e professionisti). Il resto, però, lo facciamo noi cittadini che dovremmo pretendere che i nostri dati non siano oggetto di mercimonio e dovremmo affrontare questo enorme “traffico” con un’educazione digitale adeguata all’epoca storica che stiamo vivendo. E al futuro.
Perché fare spallucce, contestare tutti quei rallentamenti fisiologici provocati dalla necessità di tutelare la privacy di ogni singola persona è l’atteggiamento che ha portato le grandi aziende del Tech ha far man bassa (ricordate lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica?) dei nostri dati: dalla profilazione pubblicitaria al tracciamento, per arrivare alla cessione (in vendita) dei nostri dati personali ad aziende terze. Dobbiamo imparare e capire che tutti questi dati (soprattutto nel digitale) hanno un valore economico immenso e per questo dobbiamo necessariamente pretendere che siano tutelati e protetti. Sacrificando quella velocità che ci è stata imposta.