La lunga storia dei nostri dati in rete, da Cambridge Analytica in poi | NOVESEDICESIMI

Nell'approfondimento di Giornalettismo abbiamo recuperato alcune interviste realizzate nel periodo in cui era esploso lo scandalo che aveva coinvolto Facebook. Parole che sono ancora attuali

14/02/2022 di Redazione

Vi ricordate il caso di Cambridge Analytica? Era il 2018, sembrava una vita fa. All’epoca, la redazione di Giornalettismo realizzò un documentario – mai pubblicato – che affrontava l’argomento con i massimi esperti italiani sulla digitalizzazione dei dati. Il documentario restò nell’hard disk: l’utenza italiana non sembrava affatto pronta a tornare su un argomento che, al di là del clamore suscitato dall’azienda coinvolta (Facebook), veniva percepito come distante, lontano dal reale interesse quotidiano. E invece, si trattava di un problema che – con il tempo – era destinato a diventare sempre più grande. Ecco perché abbiamo deciso di riproporre delle interviste sorprendentemente attuali a qualche anno di distanza. Indizi di una duplice preoccupazione: il fatto che, dal 2018 al 2022, i problemi restano gli stessi; il fatto che, nonostante siano passati quasi quattro anni, le contromisure che governi, aziende e utenti privati hanno preso nel mare magnum dei dati personali non sono ancora completamente efficaci. Grave se pensiamo che gran parte delle nostre attività, soprattutto dopo due anni di pandemia, orami si svolge online.

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Un tuffo in Cambridge Analytica: vecchio tema, problemi sempre nuovi

Nel 2018, una società di analisi dati – Cambridge Analytica – riuscì, attraverso un giochino innocente, a estrapolare dati di milioni di utenti inconsapevoli. Questi dati personali, tra le altre cose, erano stati impiegati a scopi politici, per orientare l’opinione pubblica su dibattiti rilevanti. Facebook finì nell’occhio del ciclone, Mark Zuckerberg subì una pressione mediatica non indifferente (pari soltanto a quella che ha subito recentemente, in seguito alle rivelazioni della whistleblower Frances Haugen), ma – alla fine – uno dei più grandi scandali sull’impiego dei dati personali che condividiamo quando utilizziamo le piattaforme social finì quasi nel dimenticatoio. Certo, nel 2021, il procuratore generale di Washington DC – Karl Racine – ha comunicato ufficialmente che Mark Zuckerberg verrà chiamato a testimoniare sul caso Cambridge Analytica, nell’ambito di una indagine che vorrebbe dimostrare le responsabilità individuali del CEO di Meta nella fuga di dati che ha coinvolto la sua piattaforma social. Ma, in generale, la situazione non ha avuto significative evoluzioni: Facebook ha continuato a crescere nel corso degli ultimi quattro anni e soltanto nell’ultimo trimestre del 2021 ha visto una leggerissima flessione (anche se storica) dei suoi utenti.

Intanto, l’erosione dei dati dalle piattaforme social è diventato un fenomeno sempre più problematico. Gli esperti che Giornalettismo aveva sentito nel corso di questo ciclo di interviste avevano già messo in guardia gli utenti sulla portata di uno scandalo come Cambridge Analytica e avevano posto l’accento sul business delle grandi piattaforme: quello dei nostri dati personali.

Le tappe di Cambridge Analytica e gli ultimi aggiornamenti: l’infografica

Cambridge Analytica
Come è stata scoperta la questione di Cambridge Analytica?
Cambridge Analytica
Il passo indietro di Mark Zuckerberg
Cambridge Analytica
Cosa ha comportato per Facebook lo scandalo Cambridge Analytica
Cambridge analytica
Gli ultimi sviluppi e la richiesta del giudice californiano

Il business dei dati personali

Carola Frediani, giornalista esperta di tematiche digitali e creatrice del progetto Guerre di Rete, un’associazione culturale senza scopo di lucro, il cui obiettivo è promuovere la cultura e l’informazione sui temi digitali anche attraverso una preziosissima newsletter, ha spiegato il fulcro del problema: «I dati che oggi rilasciamo in modo più o meno consapevole e che ci vengono presi in modo più o meno consensuale – ha spiegato – verranno poi usati in modi che noi non avevamo previsto e non volevamo». Il tutto con uno scopo preciso: quello di ottenere un beneficio di carattere economico (ovviamente, del tutto previsto dai termini e dalle condizioni di utilizzo delle piattaforme social).

«I nostri dati hanno un valore enorme – ci ha spiegato Will Jordan che, all’epoca dell’intervista, era un corrispondente di Al Jazeera, mentre adesso si occupa dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project -: oltre al tuo nome, il numero di telefono, il tuo indirizzo mail, chi sono i tuoi amici, dove vai, cosa fai, per chi voti, in cosa credi. E questo viene utilizzato per generare profitto dalle aziende». Un valore che l’avvocato Fulvio Sarzana, anche lui coinvolto in questa video-inchiesta, ha quantificato in miliardi e miliardi di dollari: un tesoretto a cui nessuno, nemmeno Mark Zuckerberg, potrà mai rinunciare. Paolo Attivissimo, giornalista, divulgatore e debunker, ci ha aiutato a definire la portata della questione: «Da qualche parte questo fatturato arriva. Si tratta del mercato pubblicitario, sottratto ai media tradizionali perché Google e Facebook usano il programmatical advertising, ovvero la pubblicità basata sulla persona».

Il tema è che noi, attraverso i nostri comportamenti, non facciamo altro che favorire questo mercato. Oggi, praticamente, viviamo in rete, anzi facciamo coincidere quello che è la nostra esistenza offline con la nostra presenza online. «È come se non pubblicare significasse non vivere» – sintetizza Paolo Attivissimo. Per evitare di favorire il business delle grandi piattaforme bisognerebbe avere una consapevolezza nuova, un cambiamento culturale: «Se un governo ci dicesse ti metto in tasca un dispositivo di tracciamento che seguirà tutti i tuoi movimenti, che mi dirà tutto dei tuoi amici, io sono convinto che tutti diremmo “no”. Eppure è quello che stiamo facendo con i nostri smartphone». E, a proposito di governi, neanche la politica e le istituzioni sembrano tutelarci fino in fondo in questa vicenda.

C’è un modo per difendersi da questo business

«Quello che sta succedendo – ci ha detto Will Jordan – è che ci sono diversi governi a livello mondiale che cercano di recuperare terreno regolando la vendita di dati personali. Ma quei dati sul mercato si trovano con facilità, si comprano con facilità e sono ancora nelle mani di queste aziende». Nel 2018 è stato approvato, a livello comunitario, il GDPR per regolamentare in maniera organica il trattamento dei dati personali. Da quel momento in poi, in verità, tutti i big del digital si sono adeguati alle nuove norme. Il problema è che non hanno mai dato una sensazione di vera trasparenza: le informazioni relative al trattamento dei dati degli utenti venivano presentate sempre in pagine scritte in maniera fitta, poco intuitive per l’utente medio. La sensazione di volerlo stordire, tra parole e concetti di non semplice comprensione, pur rispettando, nella forma, quanto previsto dalla legge, è enorme.

«Sto inducendo le persone a dire “sì, ok, accetto” – ci spiega Paolo Attivissimo -. Non ha senso chiedere di leggere tutte queste cose a un sedicenne che vuole semplicemente postare la foto della sua ragazza». E l’avvocato Fulvio Sarzana incalza: «Chi guadagna su queste cose, chi deve fare profilazione, le continuerà a fare, perché il gioco vale la candela. Quindi ho seri dubbi che noi riusciamo a inseguire il trattamento dei dati e a tutelarli». Qualche perplessità è stata espressa anche dalla Polizia Postale. Riccardo Croce, dirigente del Financial Cybercrime della Polizia di Stato, ci ha fornito qualche indicazione in merito: «Il cittadino fatica ad approcciarsi a un testo legislativo e, per questo motivo, ci deve essere una chiara distinzione dei ruoli. I miei dati sono i miei – conclude -, ma io devo essere messo in condizione di sapere a chi li cedo e della disciplina del trattamento da parte di chi li utilizzerà».

Non possiamo vincere questa battaglia da soli. C’è bisogno di una tutela e le norme attuali prevedono delle maglie troppo larghe. Ma noi, nel nostro piccolo, riusciamo ad avere un livello sufficiente di igiene digitale?

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