Cosa dice il codice penale sulla diffamazione a mezzo social

Il caso del video - ora rimosso dopo la decisione del Tribunale del Riesame - pubblicato da Gabriele Vagnato, apre le porte a un approfondimento su questo tipo di reato, aggravato dall'utilizzo di piattaforme digitali

16/03/2023 di Enzo Boldi

Il caso del via libera del Tribunale del Riesame al sequestro preventivo (e alla rimozione, almeno temporanea) di uno dei video pubblicato su YouTube dal TikToker e creatore di contenuti Gabriele Vagnato è – per ora – un unicum all’interno del sistema giurisprudenziale italiano. Non tanto per l’accusa mossa nei confronti del giovane da parte di una delle persone che compare – ed è riconoscibile – all’interno del filmato e che è stata accusata pubblicamente di essere un “ladro di bici” (senza, oltretutto, esserlo), ma per le modalità che hanno portato la Procura di Milano a procedere in quella direzione, imponendo la cancellazione di quel contenuto dalla piattaforma. Una vicenda che necessita di svariati approfondimenti, partendo da quello in cui si evidenzia l’aggravante della diffamazione a mezzo social.

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Partiamo dalla definizioni di “diffamazione”, spiegando anche la differenza con il reato (civile, dal 2016) di ingiuria. Per diffamazione, come scritto all’interno dell’articolo 595 del codice penale, si intende una fattispecie molto ben definita che tira in ballo non solo il mezzo con cui avviene “l’insulto” (o l’offesa), ma anche la quantità di persone che assistono a tutto ciò:

«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro».

L’articolo precedente, citato nel 595 c.p., è quello che definisce l’ingiuria che però, dal 2016 (con il decreto legislativo numero 7), è stato abrogato e derubricato a potenziale reato civile e non più penale. Perché l’ingiuria, a differenza della diffamazione, viene descritta così dall’impianto legislativo italiano:

«Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516».

Dunque, le differenze sono evidenti. È diffamazione quando si insulta o si offende l’onore di una persona (non presente) in presenza di altri. È ingiuria, quando l’offesa è rivolta direttamente a una persona presente.

Diffamazione a mezzo social, cosa dice la legge

Questa introduzione ci porta a entrare nel dettaglio di una fattispecie di reato (penale) che viene considerata una delle possibili aggravanti rispetto a quanto indicato nell’articolo 595 del codice penale: la diffamazione a mezzo social. È importante spiegare perché insultare o offendere l’altrui decoro attraverso le piattaforme di social networking viene considerato un delitto gerarchicamente più grave rispetto al reato inizialmente descritto. Scorrendo lungo il testo del suddetto articolo del codice penale, infatti, troviamo le fattispecie che rappresentano le aggravanti (con annesso aumento della pena):

«Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro».

Questa specifica è stata utilizzata in diversi casi giuridici e processi che riguardavano la diffamazione a mezzo social: da Facebook a WhatsApp, passando per Instagram e le altre piattaforme.

Le sentenze della Cassazione

Per esempio, nel 2014, la Sezione I della Corte di Cassazione Penale (sentenza numero 16712) ha preso una decisione che rappresenta un precedente fondamentale per quel che riguarda la diffamazione a mezzo social. Senza entrare nello specifico della vicenda processuale, i giudici hanno specificato che si sfocia in questo tipo di reato anche qualora – via social network – l’autore della diffamazione non espliciti in modo palese il nome e il cognome del diffamato. Nello specifico, infatti:

«ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dall’indicazione nominativa». 

Perché abbiamo citato questa sentenza? Perché ricalca in pieno il caso del video pubblicato su YouTube da Gabriele Vagnato. Nel filmato condiviso sulla piattaforma, infatti, non veniva mai fatto il nome e il cognome dell’uomo accusato (ingiustamente) di essere un ladro di bicicletta. Ma la sua immagine veniva immortalata, rendendolo dunque potenzialmente riconoscibile e individuabile anche da un numero limitato di persone. E il tutto viene ricondotto a un’altra sentenza della Corte di Cassazione (la numero 50 del 2017) in cui i social network (tra cui YouTube) rientrano all’interno delle aggravanti previste dal terzo comma dell’articolo 595 del codice penale:

«La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggettiampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche del social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica».

Dunque, l’utilizzo di piattaforme social rappresenta un’aggravante per il reato di diffamazione (così come accade per la diffamazione a mezzo stampa).

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