Dal carcere in Egitto al suicidio: il web piange l’attivista LGBT Sarah Hijazi

È un percorso lungo, e pieno di sofferenze, quello che porta da un innocente concerto rock in una piazza del Cairo a un carcere, e poi di nuovo dal carcere a una fuga  in Canada. Un percorso che noi, occidentali, facciamo fatica a immaginare, ma che, dopo aver assistito all’orribile esperienza di Giulio Regeni, non ci stupisce. Sarah Hijazi era un’attivista egiziana per i diritti lgbt. La sua colpa? Aver sventolata una bandiera arcobaleno in un concerto: un affronto che, per il regime egiziano, è valso ben due mesi di carcere. Due mesi segnati da stupri e violenze. Dopo essere stata rilasciata, Sarah aveva riparato in Canada per l’ostracismo che le era stato dimostrato in patria.

Ieri, su molte piattaforme social, l’annuncio del suicidio, dopo una lunga battaglia contro la depressione e i segni delle violenze subite. Un addio anticipato da un messaggio: «Ai miei fratelli, ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici, l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo, sei stato davvero crudele, ma io ti perdono».  Su Instagram, social dove Sarah si definiva super-comuista, super-gay e super-femminista c’è un’ultima foto: lei distesa su un prato, mentre guarda il cielo con una frase che sa di triste profezia.

Il tutto mentre in Egitto continua, più violenta che mai, la persecuzione ai danni delle persone Lgbt, come dimostra l’incarcerazione dello studente dell’Università di Bologna come dimostra la vicenda di Patrick George Zaki   mentre qualche giorno fa si è registrata la morte del regista, appena 22enne, Shady Habash, colpevole di aver girato un video satirico contro il regime di Al-Sisi. Il tutto mentre l’Italia vende all’Egitto due fregate italiane, suscitando lo sdegno immediato della Commissione Regeni. Business as usual insomma, con un regime che non perde mai occasione di dimostrare la sua ferocia.

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