Cosa sta succedendo a Facebook e cosa c’entra George Soros

Tempi duri per Facebook, ora nell’occhio del ciclone dopo un’inchiesta pubblicata dal New York Times. Il giornale americano sostiene, con testimonianze alla mano, che Mark Zuckerberg e il suo braccio destro Sheryl Sandberg abbiano deliberatamente ignorato i campanelli d’allarme su fake news e violazioni della privacy ma, sopratutto, li accusa di aver permesso che un’agenzia terza da loro assunta screditasse attivamente altre figure, tra cui l’oppositore George Soros.

Facebook ignorava i campanelli d’allarme, parola dei suoi dipendenti

Il mantra era “crescere, crescere e ancora crescere”. Su questo si sono concentrati il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg, la chief operating officer della società. E per concentrarsi sul fare investimenti e guadagni, ai due sarebbero sfuggiti molti problemi. Troppi. Sopratutto legati alla diffusione dell’odio e di operazioni di lobbying sulla piattaforma. Facebook negli ultimi tempi ha fatto delle scuse pubbliche una sorta di policy riparatrice per la diffusione di contenuti discriminatori e d’odio (una su tutte, i post dell’esercito del Myanmar) ma adesso dovrà rispondere per azioni messe in atto dall’agenzia Definers Public Affairs, a cui si erano affidati.

Mentre Mark era in pieno tour di scuse per le violazioni della privacy dei suoi utenti, Sheryl Sandberg stava supervisionando «una campagna di lobbying aggressiva per combattere i critici di Facebook, spostare la rabbia pubblica verso le compagnie rivali e scongiurare una regolamentazione dannosa». Per fare ciò, continua il New York Times, «Facebook ha impiegato una società di ricerca dell’opposizione repubblicana per screditare i manifestanti attivisti, in parte collegandoli al liberale finanziere George Soros». E non finisce qui: «Ha anche sfruttato i suoi rapporti commerciali, facendo pressioni su un gruppo ebraico per i diritti civili per criticare la società come antisemita» scrive il NyT.

La scelta di affidarsi alla società consulente arriva nel 2017, dopo che Facebook aveva dovuto affrontare (male) le polemiche sui post di Donald Trump durante la campagna elettorale, e poi le interferenze russe attraverso il social per influenzare le elezioni i presidenziali. Uno dei punti cruciali sta proprio lì: pare che Mark non sapesse davvero nulla, non fino all’ultimo momento almeno. All’interno della società era stata messa in piedi una task force, che aveva colto alcuni campanelli d’allarme, guidata da Joel Kaplan e dal capo della sicurezza aziendale Alex Stamos. Sotto la supervisione di Sheryl Sandberg, diventata punto di riferimento per gestire le questioni “politiche” della piattaforma. Mark Zuckerberg aveva un ruolo praticamente marginale, perché preferiva concentrarsi su altre cose. Almeno così sostengono i diversi dipendenti sentiti dal New York Times, secondo cui più di una volta erano state segnalate anomalie come le interferenze russe e le violazioni della privacy. Ma tutto si risolveva puntualmente in un niente di fatto o a delle scuse pubbliche, a giochi belli che fatti.

Facebook e la Definers Public Affairs, i fixers dietro la campagna antisemita

Ecco allora che diventa centrale il ruolo della Definers Public Affairs, un gruppo di fixers specializzati nella gestione e salvaguardia dell’immagine pubblica. Secondo il NyT, uno dei dirigenti del gruppo Tim Miller disse chiaramente che era necessario riscattare l’immagine di Facebook «con la pubblicazione di contenuti positivi sul loro conto e di contenuti negativi sul conto degli avversari». Contenuti che sono apparsi in grande quantità sul sito NTK Network, non influente di per sé ma ripreso da diversi altri siti di notizie e forum. Proprio lì apparvero articoli che screditavano Google e Apple, che stavano cavalcando lo scandalo di Cambridge Analytica per dissociarsi da Facebook, e il loro utilizzo dei dati personali degli utenti. Poi, è arrivata la svolta “antisemita”. Durante l’audizione al Congresso di un dirigente di Facebook, il gruppo Freedom from Facebook fece irruzione innalzando dei cartelli con delle vignette raffiguranti Zuckerberg e Sandberg  «come due teste di un polpo che si estendevano in tutto il mondo».  Il giornale ha intervistato il leader di quel movimento, Eddie Vale, che ha spiegato che «l’immagine avrebbe dovuto evocare le vecchie vignette di Standard Oil, il monopolio dell’età dell’oro», ma il dirigente che stava testimoniando chiamò in causa l’Anti-Defamation League, una delle principali organizzazioni ebraiche per i diritti civili, sostenendo che l’intento della protesta era antisemita, essendo Zuckerberg e Sandberg ebrei. Stando alle dichiarazioni di Vale però, «non c’erano riferimenti intenzionalmente anti semiti nei manifesti usati durante la protesta». Ormai però, la miccia era accesa, e ad accenderla era stata la Definers.

Sempre della Definers, Facebook si sarebbe servito per attaccare grandi esponenti “anti-facebook” come George Soros. L’imprenditore e filantropo si era espresso pesantemente suoi big della tecnologia, sostenendo che stavano influenzando il pensiero della gente senza che se ne accorgessero, e che erano estremamente pericolosi. Li descriveva come «minaccia monopolistica con né la volontà né l’inclinazione a proteggere la società dalle conseguenze delle loro azioni». Insomma, era un bersaglio facile da colpire. «Un documento di ricerca distribuito da Definers ai giornalisti quest’estate, appena un mese dopo l’udienza della Camera – scrive il New York Times –  ha individuato Soros come la forza non riconosciuta dietro quello che sembrava essere un ampio movimento anti-Facebook». Definers fece pressioni sui giornalisti per approfondire i legami tra la famiglia di Soros e i gruppi in questione anti-facebook. Sta di fatto che Soros ha finanziato l’associazione Color Of Change e il gruppo progressista fondato dal figlio, ma non Freedom from Facebook, e che comunque non aveva finanziato nessun gruppo che contestava attivamente il social network.

I lobbisti di Facebook che arrivarono fino al senato

Definers avrebbe anche stretto rapporti con il senatore di New York e leader Democratico Chuck Schumer, la cui figlia Alison «è oggi marketing manager negli uffici di New York di Facebook». Schumer avrebbe tentato di proteggere la compagnia da Mark Warner, invitandolo a non perdere «di vista la necessità per Facebook di affrontare problemi con disinformazione di destra e interferenze elettorali, così come la privacy dei consumatori e altre questioni». I legami con la politica si sarebbero stretti ancora di più intorno a settembre per far fronte all’indagine dell’Intelligence Committee del Senato. 

I lobbisti di Facebook si eran0 “lavorati” anche il Comitato di Intelligence e Richard Burr. Prima delle udienze di Sandberg al Senato, i lobbisti avrebbero chiesto «ai legislatori di astenersi dall’interrogare la signora Sandberg in merito a problemi di privacy, Cambridge Analytica e censura» si legge nell’articolo del New York Times che aggiunge che Burr «un giorno prima dell’udienza, ha lanciato un severo avvertimento a tutti i membri del comitato per attenersi al tema dell’interferenza elettorale». Il sospetto è che Definers fosse dietro anche ai famosi appunti che Sherley Sendberg teneva davanti a sé durante l’audizione in Senato, dove si leggeva chiaramente «Slow, Pause, Determined»: Rallenta, fermati, mostrati determinata. 

(Credits immagine di copertina: ELIOT BLONDET/ABACAPRESS.COM)

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