Il miglior articolo sulla piaga del razzismo negli stadi è stato scritto da un calciatore

Antonio Rudiger, difensore tedesco del Chelsea (ed ex Roma) ha raccontato la sua storia personale con molti spunti spesso sottovalutati anche da chi fa il mestiere del giornalista

29/05/2021 di Enzo Boldi

«Oh no. Anyway» è uno dei meme più utilizzati sui social, ma può essere anche la sintesi di quanto scritto da un “giornalista” d’eccezione che, però, fa tutt’altro di mestiere. Antonio Rudiger, difensore tedesco del Chelsea e della Nazionale tedesca, ha scritto di proprio pugno un articolo in cui ha parlato della piaga razzismo all’interno degli stadi. Ovviamente, per contingenza temporale con le restrizioni che hanno portato a un anno abbondante di impianti vuoti e partite a porte chiuse, il calciatore ha fatto riferimento ad alcuni episodi personali che gli sono accaduti nel corso del suo biennio capitolino, quando ha indossato la maglia giallorossa della Roma. Ma quanto scritto in quel suo articolo – che potremmo definire con l’ossimoro “razionalmente istintivo” – è la migliore analisi di come sia affrontato (male) questo tema. Da tutti: dalla stampa, fino ai club.

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Antonio Rudiger ha regalato il suo pensiero alle pagine online di The Players Tribune. E già il titolo (“Questo articolo non risolverà il razzismo nel calcio“), che sembra avere l’aria della rassegnazione, offre un vero e proprio spaccato di un’analisi molto più profonda rispetto ai gesti eclatanti che diventano virali nel giro di poco tempo, ma i cui effetti svaniscono altrettanto velocemente. Il calciatore del Chelsea racconta degli insulti razzisti ricevuti durante il derby della Capitale del 2017. Il teatro è quello dello Stadio Olimpico e dagli spalti volavano insulti contro di lui. Non per la sua prestazione, ma per il colore della sua pelle: «Neg*ro. Vaffanc*lo, vai a mangiare una banana». Il tutto correlato dai classici ululati razzisti. Il vero zoo era sugli spalti, ma per lui – nel pieno della foga agonistica – era difficile razionalizzare in quei momenti. L’anno prima, sempre in occasione della stracittadina contro la Lazio, il capitano biancoceleste Senad Lulic era stato protagonista di una dichiarazione contro Rudiger, in linea con i classici cliché razzisti che fanno annaspare il mondo del calcio.

L’ex difensore della Roma ha raccontato del ruolo fondamentale di Daniele De Rossi che fece un qualcosa di molto diverso rispetto agli altri: «È venuto da me dopo la partita della Lazio e mi ha detto qualcosa che non credo di aver mai sentito prima. Ero ancora molto emotivo, molto arrabbiato. De Rossi si è seduto accanto a me e ha detto: “Toni, so che non mi sentirò mai come te. Ma fammi capire il tuo dolore. Cosa sta succedendo nella tua testa?”. Non ha twittato. Non ha pubblicato un quadrato nero. Gli importava  Molte persone nel calcio dicono cose pubblicamente, ma non vengono mai veramente da te personalmente. De Rossi voleva davvero sapere come mi sentivo.Questo ragazzo era un’icona del club. Una leggenda. Quando sono entrato per la prima volta nello spogliatoio, solo vederlo mi ha fatto sentire come se fossi un ragazzino nervoso. Ma nel mio momento più difficile, De Rossi si è preso cura di me come essere umano. Voleva capire».

Antonio Rudiger, il miglior giornalista sul tema razzismo negli stadi

Perché la figura di Daniele De Rossi è stata così importante e distintiva? La risposta a questa domanda non rappresenta un tentativo di piaggeria nei confronti del suo ex compagno di squadra. Perché proprio dal comportamento dell’ex capitano della Roma emerge la differenza tra la narrazione che il mondo del calcio (e del giornalismo) fa del problema razzismo negli stadi e la cruda realtà.

Antonio Rudiger, infatti, sottolinea come ci sia sempre una grande mobilitazione (in particolare social) quando accadono episodi di intolleranza o vengono denunciati pubblicamente. Ma si tratta di reazioni sporadiche che si perdono – come accaduto di recente in Premier League – nel giro di un Tweet, di un post con lo sfondo nero o con una patch attaccato sulla manica delle maglie da gioco. Poi si ricade nell’oblio, mentre gli episodi di odio razziale (che hanno solamente come valvola di sfogo il mondo del pallone) continuano. Fino alla successiva due/tre-giorni di indignazione popolare. E, alla fine, ecco quel «Oh no. Anyway» che rappresenta nel migliore dei modi l’approccio a un problema atavico che non trova soluzioni. E oggi quel calciatore ha buttato giù quel muro tra il mondo del giornalismo e quello del calcio, diventando l’attore protagonista della miglior narrazione di questo squallido fenomeno.

(Foto IPP/Marc Atkins / Offside Londra)

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