La testimonianza di Susan Dabbous, la giornalista che fu rapita in Siria nel 2013

12/05/2020 di Enzo Boldi

Nelle concitate ore in cui si è accesso un dibattito – con toni fin troppo accesi – attorno alla liberazione di Silvia Romano, tornano alla memoria molte altre persone finite nelle mani dei terroristi islamici dei vari gruppi sparsi in tutto il Mondo. Insieme in Rete ha raccolto la testimonianza di Susan Dabbous, la scrittrice e giornalista italo-siriana che il 3 aprile del 2013 fu rapita proprio in Siria insieme ad altri tre colleghi della Rai.

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Il sequestro avvenne durante le fasi delle rivolte civili in Siria, iniziate nel 2011, contro Bashar al-Assad. Era lì per raccontare gli scontri e le tensioni nelle varie città. Per undici giorni, insieme ad altri tre giornalisti della Rai, fu tenuta ostaggio per mano degli uomini di Jabhat Al-Nusra, una cellula legata ad Al-Qaeda molto attiva ad Aleppo e dintorni. Poi la liberazione con la sua storia che è stata pubblicata anche in un suo libro dal titolo ‘Come vuoi morire?».

Susan Dabbous, la testimonianza della giornalista rapita in Siria nel 2013

«Ho scritto un diario per raccontare quella esperienza. Parlando della mia esperienza posso spiegare perché non si si sfila uno hijab all’arrivo di questa ragazza che stava lì. Trovo che questo sia un errore grossolano e dal piccolo della mia esperienza posso raccontare – ha detto Susan Dabbous rispondendo alle domande di Flavio Alivernini e Fabio Salamida -. È un errore pensare che un aereo possa essere una macchina del tempo che ti porta indietro. In quei 18 mesi noi non sappiamo cosa è accaduto e dobbiamo provare molto rispetto per i tempi che sono necessari a Silvia Romano per parlare di quanto successo, o scegliere di non farlo. Pare che ultimamente ci sia un accanimento nei confronti delle giovani donne perché, probabilmente, c’è stato un passo indietro a livello sociale».

Il caso Silvia Romano e l’attenzione su questioni accessorie

«Io non conosco Silvia Romano, ma cosa posso pensare di una persona normale, che ha studiato e che ha un avvenire e decide di andare in Africa per fare un lavoro di tipo umanitario – ha proseguito la giornalista -. Mi viene da pensare che è una persona altruista e coraggiosa, e che merita un certo tipo di riguardo. La conversione è diventato il tema principale, insieme all’abbigliamento. Cose che hanno cancellato completamente i 18 mesi precedenti. Ma come si fa a estrapolarla da questo tipo di contesto?».

Gli undici giorni di sequestro

«Nel caso del mio rapimento, sono stata molto fortunata. Io e gli altri tre colleghi siamo stati nelle mani dei rapitori per ‘soli’ 11 giorni. Per me è stato facile togliermi il velo, perché ho dovuto fingere per pochi giorni di voler essere quel che loro volevano diventassi – ha detto Susan Dabbous -. Sentivo gli altri torturati nelle stanze vicine, queste le strategie psicologiche. Allora ho chiesto di bere acqua, fare abduzioni e pregare. Questo era il solo modo per sopravvivere e migliorare la mia condizione di vita in quei momenti». Poi ha spiegato che il suo rapimento è stato per motivi politici e non economici: «Mi sentivo sotto minaccia, perché sono una donna emancipata che parla sette lingue. Una cosa che per loro è inammissibile. Per sopravvivere psicologicamente ho tentato di pensare alle cose pratiche: non ammalarsi, non mangiare cibi che pensavo essere sospetti. Ho tentato di evitare di pensare alla mia famiglia, per non cedere».

(foto di copertina: da diretta di Insieme in Rete)

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