Venezia 75, Opera senza autore, la recensione

04/09/2018 di Redazione

Opera senza autore, dopo The Tourist, è il secondo film di Florian Henckel Von Donnersmarck dopo l’Oscar per il miglior film straniero vinto per Le vite degli altri. E dopo l’infausta incursione veneziana con Johnny Depp e Angelina Jolie, il regista tedesco torna a luoghi a lui più familiari.

Opera senza autore
Sebastian Koch in una scena di Opera senza autore

Opera senza autore: tra storia e finzione

Dresda, 1940. Kurt è solo un bambino, ma già ha un enorme talento per il disegno e il suo sogno è quello di diventare un giorno un artista. Un desiderio che si avvererà, mentre al Germania attorno a lui brucia e viene divisa tra russi e americani. Nella DDR fare il pittore significa essere al servizio del popolo e della collettività, una costrizione che Kurt non può accettare, ancor di più dopo avere incontrato Elisabeth. Intanto arriva la Guerra Fredda e la Germania Ovest diventa sempre più un imperativo, per non restare prigionieri di un regime che non ama l’arte fine a se stessa.
Per costruire il personaggio di Kurt Barnert, il protagonista di Opera senza autore, Von Donnersmarck si è ispirato alle opere e alla figura del pittore tedesco Gerard Richter. Ma si è trattato più di uno stimolo per cominciare la scrittura di un racconto che abbraccia quasi trent’anni di storia tedesca, fino alle soglie degli anni Settanta. Il regista di Colonia si cimenta in progetto ambizioso, un personalissimo Heimat che vuole essere anche una riflessione, approfondita più che profonda, sul processo creativo e sull’influenza delle esperienze e del subconscio sullo stesso.

Opera senza autore: forse è proprio questo il problema

Ma Von Donnersmark non è Edgar Reitz, né men che mai Rainer Werner Fassbinder. L’affresco storico è scolastico, e le riflessioni artistiche banali, entrambi gli elementi sono accessori al racconto di una storia d’amore che attraversa le terribili prove che la Germania ha affrontato dopo la caduta nel nazismo. Purtroppo, Opera senza autore ha un’estetica e una scrittura, e soprattutto una durata, molto più vicine a quelle di un buona fiction che di un film, e vederlo selezionato per il concorso di Venezia 75 lascia francamente perplessi. Si salvano gli interpreti, su tutti il sempre eccellente Sebastian Koch, veramente efficace nei panni di un crudele ex medico delle SS e genitore non migliore. Detto ciò, se è vero che due indizi fanno una prova, sorge il sospetto che Le vite degli altri sia stato un caso molto fortunato.

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