In Australia sta scoppiando una polemica per la polizia che ha usato i dati dell’app di tracciamento Covid

La polizia ha acquisito informazioni nel corso di alcune indagini su casi di omicidio

16/06/2021 di Gianmichele Laino

Il singolo episodio che si è verificato in Western Australia apre un enorme capitolo sui dati che vengono ormai quotidianamente raccolti dalle app di tracciamento contro il coronavirus. Infatti, nonostante le rassicurazioni sulla totale segretezza delle informazioni messe insieme dai sistemi informatici che cercano di prevenire la diffusione del contagio da coronavirus, la polizia dello stato australiano ha utilizzato i dati di SafeWA – l’app di tracciamento Covid utilizzata in quell’area geografica – per portare avanti alcune sue indagini, anche in un caso di omicidio.

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SafeWA e l’utilizzo dei dati delle covid app dalla polizia in Australia

In pratica, la polizia di stato ha avuto accesso a un database che, in realtà, doveva essere assolutamente privato e che doveva essere utilizzato soltanto dai responsabili del trattamento dei dati personali. Secondo il capo della polizia del Western Asutralia, Chris Dawson, gli agenti hanno avuto informazioni solo per due casi su 240 milioni di transazioni, tra l’altro in circostanze eccezionali. La polizia, infatti, stava indagando in un caso di omicidio.

Il massimo funzionario dello stato del Western Australia, Mark McGowan, ha comunicato che una delle clausole dell’utilizzo dell’applicazione di tracciamento consentiva, effettivamente, alla polizia di aver accesso ai dati di tracciamento, ma questa situazione – contraria all’orientamento che era stato dato all’opinione pubblica – è stata sanata da un intervento legislativo successivo, che ha specificato – ora – che la polizia non può utilizzare i dati di tracciamento di SafeWA.

La cultura della privacy in Australia è molto pronunciata e una intrusione delle forze di polizia nei database – sebbene borderline dal punto di vista di ciò che era consentito fare a proposito dell’app di tracciamento, prima dell’intervento legislativo – è stata percepita come una violazione dei dati personali. Un evento che ha fatto clamore e che ha superato i confini nazionali, imponendo anche una riflessione sulla gestione di dati sensibili da parte di istituzioni che possono beneficiare di app di tracciamento.

Per quanto riguarda l’Italia, il ministero della Salute è il titolare del trattamento dei dati personali contenuti all’interno dell’app Immuni, e queste sono le indicazioni sulle finalità del trattamento stesso:

«I dati personali – si legge nell’area riservata alla privacy – verranno utilizzati al fine di allertare gli utenti che hanno avuto un contatto a rischio con altri utenti risultati positivi al SARS-CoV-2 (il virus che provoca il COVID-19) e tutelarne la salute attraverso le misure di prevenzione previste nell’ambito delle iniziative di sanità pubblica legate all’emergenza COVID-19, come previsto dall’articolo 6 del decreto-legge del 30 aprile 2020, n. 28. Ciò anche nell’ambito dell’Unione Europea attraverso l’interoperabilità con analoghe APP nazionali. Inoltre, i dati potranno essere utilizzati, in forma aggregata e anonima, per soli fini di sanità pubblica, profilassi, statistici o di ricerca scientifica».

Dunque, anche in Italia i dati possono essere utilizzati per segnalazioni relative alle misure di prevenzione o, al massimo, per fini statistici collegati sempre alla sanità e alla ricerca scientifica. Nessuna possibilità, quindi, di utilizzare quegli stessi dati all’interno di indagini di polizia giudiziaria. Come, invece, è avvenuto in Australia.

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