Ruanda, la storia del coming out di Albert: «Solo una chiesa mi ha accolto»

Albert Nabonibo, ha 36 anni, la passione per il canto nel coro della chiesa e si definisce, semplicemente, un ruandese. La storia del suo coming out ha fatto il giro del mondo perché racconta di una acerrima lotta per il riconoscimento dei diritti civili, orgoglio, abbandono e speranza, anche in un continente, come quello africano, decisamente poco inclusivo verso le minoranze LGBTQ. O almeno così sembrerebbe. La sua, infatti, è una storia nata dalla ghettizzazione di chi non si sente accettato ma che – pur di andare avanti con la sua battaglia – continua con orgoglio il suo percorso di accettazione all’interno della società del Ruanda nonostante le molteplici difficoltà a cui continua ad andare incontro.

L’infanzia in Ruanda al tempo della guerra civile

Albert, racconta, è il sesto di sette fratelli, cresciuto solo con la madre perché il padre rimase ucciso durante la guerra civile del 1994. «All’epoca del genocidio fra Hutu e Tutsi capitava di essere uccisi senza sapere il motivo, allora avevo dieci anni e non seppi mai chi assassinò mio padre. Mia madre per mantenerci passava il tempo a lavorare per riuscire a portare il cibo a casa. Iniziai a capire che ero diverso – continua – verso la fine delle scuole superiori ma non dissi mai a nessuno che ero omosessuale, mi incontravo con altri uomini, di ogni età, solo per sesso occasionale durante il fine settimana».

«Anche all’Università di Kampala, dove andai a studiare economia finanziaria, la situazione non cambiò affatto: dovevo continuare a nascondermi e subire la pressione della famiglia e degli amici che mi volevano sposato e mi chiedevano se fossi gay o meno. Non ero mai felice, non riuscivo più a continuare a nascondermi. Alcuni ragazzi con i quali avevo avuto rapporti occasionali – aggiunge – dissero ai miei familiari che ero omosessuale e che li frequentavo. Tutti continuavano a parlarmi alle spalle, ero molto stanco».

Il coming out su YouTube

Albert decide così di fare coming out su YouTube ma la reazione di familiari, amici, colleghi e persino degli abitanti del paese della madre fu disastrosa. «I miei familiari mi presero in giro e dissero che non ero normale, iniziarono a chiamarsi a vicenda mostrando il video del mio coming out e prendendosi beffe di me. Poi fu il turno dei colleghi, anche loro mi sbeffeggiavano fino a quando, dopo tutte le pressioni, anche del mio capo, decisi che era il momento di finire di lavorare in quell’ufficio e rassegnai le dimissioni».

«Anche i fedeli della chiesa dove mi recavo a cantare iniziavano a indicarmi e a prendersi beffe di me per strada mentre mi recavo a messa. Non volevano cantassi nel coro con loro, così, alla fine, ho dovuto abbandonare anche la mia chiesa. Ora – continua Albert – vivo da mio zio ma sua moglie non apprezza la scelta che ho fatto di manifestare il mio orientamento, così non esco spesso di casa, solo la domenica per andare nella nuova chiesa che mi ha accolto».

L’accoglienza in una nuova chiesa

Dopo essere stato isolato e ghettizzato da tutti, anche dalla comunità dove era fedele, Albert ha trovato accoglienza in una nuova congregazione, la Fellowship of Affirming Ministries (Tfam), una chiesa dove vengono accettati anche fedeli gay e trans, questi ultimi soprattuto, così ghettizzati dalla società ruandese che, come precisa Albert,«sono costretti ad uscire esclusivamente di notte per non subire minacce o altro».

«Essere accettato da un’altra chiesa è stato molto importante per me. Così le persone potranno cambiare idee e atteggiamenti verso di noi, se la chiesa inizierà a trattare le persone LGBTQ come normali, anche i fedeli inizieranno a farlo e così via tutta la società». Qui Albert « a far parte del coro e può esprimere la sua fede senza sentirsi escluso.

«Qui si fa un’opera di riconciliazione con la parola di Gesù Cristo, che porta un messaggio di accettazione radicale – aggiunge Joseph Tolton, vescovo della Tfam – rifiutiamo il lavoro della rete evangelica conservatrice americana che cerca di influenzare l’evoluzione della società di alcuni Paesi africani». Con un riferimento non troppo velato, quello del vescovo, alla vicina Uganda dove le chiese evangeliche sono state accusate di aggravare le discriminazioni a danno delle persone LGBTQ.

Il messaggio di Albert

In Ruanda la persecuzione delle minoranze sessuali è perseguibile per legge ma, come insegna la storia di Albert che continua a ricevere ostilità per il suo coming out, la situazione della società è oltremodo diversa da quella che le legge cerca di regolare. Nel 2011 il governo di Kigali ha firmato la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’orientamento sessuale e l’identità di genere ma i risultati sono ben lontani dalle aspettative.

«Continuo a ricevere discriminazioni dalle persone che incontro per strada e non mi sento accettato tutti i giorni, solo la domenica a messa. Se però avessi la possibilità di tornare indietro rifarei esattamente quello che ho fatto, non mi pento di essermi fatto avanti. Il mio è un messaggio che vorrei globale: siamo tutti stati creati dallo stesso Dio, ognuno ha sentimenti diversi dall’altro e non abbiamo scelto noi se essere in un modo o nell’altro. Dobbiamo rispettarci a vicenda ogni giorno. La mia scelta spero rappresenti un esempio per le future generazioni: non temete di uscire allo scoperto, altrimenti, fino a quando riuscirete a nascondervi? Possiamo iniziare a cambiare il modo con il quale il mondo ci guarda solamente iniziando ad accettarsi noi stessi per primi».

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