Il paradosso della global tax: sembrano più contenti i tassati (e allora forse è troppo timida)

Basta analizzare le reazioni: Facebook è disponibile ad aprire tavoli, l'Oxfam è molto critica

06/06/2021 di Gianmichele Laino

Ieri è successa una cosa abbastanza incredibile. Quando c’è stato l’annuncio di un accordo trovato sulla cosiddetta global tax, che imporrà alle multinazionali più ricche di versare un 15% di imposta negli stati dove avvengono i profitti (e non in quelli dove hanno la sede legale), con la possibilità di arrivare al 20% in alcune circostanze, le voci più entusiaste – oltre a quelle dei ministri dell’Economia del G7 che hanno trovato la quadra – sono state proprio quelle delle multinazionali che saranno tassate (come ad esempio Facebook o Amazon). Strano questa reazione sulla global tax, non trovate? È stato un po’ come se i grandi ricchi del panorama finanziario italiano avessero brindato insieme a Enrico Letta che aveva chiesto di tassare le successioni dell’1% del Paese che dispone di ingentissimi patrimoni, invece di avviare una campagna di totale contrasto che – alla fine – ha finito per coinvolgere anche quelle persone che mai avrebbero raggiunto i requisiti per pagare l’imposta ipotizzata dal segretario del Pd. Ma tant’è. È successo che Facebook e Amazon, tra gli altri, abbiano aperto a qualsiasi tipologia di collaborazione, definendo equo il piano dei ministri dell’Economia dei grandi del pianeta, mentre organizzazioni che da anni si battono per un fisco più equo abbiano – di contro – alzato le barricate.

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Reazione sulla global tax, chi è contento e chi no

Pensate a Facebook. Subito dopo l’annuncio arrivato da Londra, il numero uno delle relazioni globali del social network, ovvero Nick Clagg, ha affermato: «Facebook ha a lungo posto l’attenzione su una riforma della tassazione globale e abbiamo accolto con favore i progressi fatti dal G7. Vogliamo un processo di riforma internazionale delle tasse che possa riconoscere il fatto che Facebook paghi più tasse in differenti Paesi». Amazon si è aggiunto al coro: «Questo sistema porterà maggiore stabilità al sistema di tassazione internazionale, l’accordo al G7 è un passo in avanti verso questa direzione. Speriamo che la discussione possa andare avanti anche nel corso del G20 per rinsaldare questo principio inclusivo». Anche Google ha avuto una reazione molto positiva all’accordo sulla global tax.

Ma davvero queste grandi multinazionali, che hanno a lungo giocato con gli incroci tra sedi legali in Paesi con tassazioni agevolate e altri sistemi di alleggerimento fiscale, sono all’improvviso contente di pagare più tasse in diverse aree del mondo? Probabilmente, se leggiamo le dichiarazioni di Oxfam – l’unione delle non profit che ha come obiettivo principale quello di ridurre la povertà globale – capiamo meglio il problema. Dopo l’accordo, l’organizzazione ha affermato: «È assurdo che il G7 affermi che sta “revisionando un sistema fiscale globale che non funziona” stabilendo un’aliquota minima globale di imposta sulle società simile alle aliquote agevolate praticate da paradisi fiscali come Irlanda, Svizzera e Singapore. Stanno tarando il livello così in basso che le aziende possono semplicemente scavalcarlo. Questo non è un accordo equo: il G7 non può pretendere che la maggior parte dei paesi del mondo accetti briciole dal proprio tavolo».

Il 15% non è distante da quello di “paradisi fiscali”

Vediamo di cosa stiamo parlando nel dettaglio. La stima di una tassazione del 15% nei Paesi dove queste aziende realizzano profitti garantirà, secondo una prima stima totale, circa 50 miliardi di entrate in più. Nell’epoca in cui tutti gli stati stanno affrontando uno sforzo economico di un’altra portata per risollevare le proprie attività produttive nell’epoca post-Covid, la cifra potrebbe comunque essere considerata inferiore alle attese. Anche perché, all’inizio del dibattito sulla global tax che va avanti da mesi, si era pensato a un’aliquota del 21% che avrebbe comportato un’entrata più che doppia rispetto a quella prevista.

Il 15%, in fin dei conti, non è molto distante dal 12,5% previsto attualmente dall’Irlanda che, non a caso, era stata scelta come sede di alcune delle multinazionali coinvolte e che, in seguito a questo accordo di massima, stima una perdita di entrate pari a 2 miliardi di euro. Insomma, il compromesso sarebbe al ribasso e ciò spiegherebbe la soddisfazione delle multinazionali. Un bagno di realpolitik per evitare scontri e affronti in un processo che già si annuncia lungo e farraginoso.

Foto IPP/zumapress Londra

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