Psicologi sullo sharenting e lo smartphone che si frappone come terzo tra genitore e bambino
Volendo approfondire il tema dello sharenting abbiamo contattato il dottor Samuele Russo e la dottoressa Annabell Sarpato per capire gli effetti che lo sharenting ha sui minori
09/03/2023 di Ilaria Roncone
Quali sono le conseguenze della pratica dello sharenting – la condivisione delle foto di minori da parte dei genitori sui propri account social e, più in generale, in internet – sui bambini? Cosa succede nell’immediato e cosa, potenzialmente, potrebbe accadere nel futuro di quelle che – seppure attualmente piccole – sono persone adulte in potenza? Nella giornata che abbiamo scelto di dedicare al tema dello sharenting (termine coniato nel 2010 che inquadra un fenomeno internazionale che desta attenzione nel mondo), abbiamo scelto di interpellare il dottor Samuele Russo e la dottoressa Annabell Sarpato, entrambi psicologi esperti in ambito infantile. Quale è – appunto – il parere degli psicologi sullo sharenting?
LEGGI ANCHE >>> La frase di Monelli Kids diventata un trend e le conseguenze “reali” della notorietà sui social
«Spesso non ci si pone il problema perché non si conoscono le conseguenze dell’esposizione social dei minori»
Avendo potuto parlare con entrambi i professionisti è emerso molto presto come le opinioni dei due psicologi sullo sharenting fossero allineate. Il parere della dottoressa Annabell Sarpato è molto chiaro: si tratta di un «problema di privacy. I bambini – quando si tratta di sharenting – non danno il consenso: prima perché sono troppo piccoli, poi, quando sono più grandi, spesso i genitori neanche chiedono se possono pubblicare le foto». «Anche chiedere a un bambino se vuole che la sua foto viene pubblicata, però, spesso è fine a se stesso perché occorre un’educazione preliminare ad un uso dei social consapevole e responsabile», spiega la dottoressa.
«Il tema dello sharenting sta emergendo in questi anni. Spesso non ci si pone il problema perché non si conoscono le conseguenze che può avere un’esposizione mediatica assidua dei minori sui social – evidenzia Sarpato -. Ci si preoccupa molto dell’educazione alle nuove tecnologie per gli adolescenti, ma occorre partire da molto prima, dato che i bimbi di oggi sono a tutti gli effetti nativi digitali. Occorre formazione per i genitori».
Il nodo è proprio quello della persona in potenza di cui parlavamo all’inizio dell’articolo (punto sul quale entrambi gli psicologi sullo sharenting si sono espressi): «L’importanza della tutela dell’immagine del minore perché il minore, prima di essere un bambino, è una persona. Rispetto per il bimbo che è, ma anche per l’adulto che diventerà. Non si ha più controllo del materiale messo in rete, dunque i bambini da grandi dovranno fare i conti con l’identità digitale creata per loro dai loro genitori, pregna di immagini e fotografie che i bambini non hanno scelto di diffondere. C’è poi la questione dell’adescamento online e del materiale pedoporografico», afferma la dottoressa aprendo una tematica – quella relativa alle conseguenze dello sharenting – che abbiamo approfondito in seguito con il dottor Samuele Russo. «Credo che le conseguenze saranno visibili maggiormente nei prossimi anni, e solo allora potremmo toccare con mano le conseguenze di questo fenomeno», conclude la dottoressa.
Sharenting significa anche che «il rapporto tra care giver e bambino è mediato dal dispositivo»
Sulle conseguenze il professor Samuele Russo ha fatto un ampio ragionamento con Giornalettismo: «Il discorso sulle conseguenze, sia a breve che a lungo termine, le vede coincidere. Si tratta di un fenomeno che innesca nei meccanismi di funzionamento che, a lungo andare, portano conseguenze a breve termine riscontrabili nel rapporto tra i il bambino e il care giver. Il genitore, in pratica, inizia a vivere attraverso i dispositivi i momenti con il figlio. Il rapporto viene vissuto attraverso le foto: se il bambino sta affrontando una tappa dello sviluppo e il genitore – piuttosto che stare col bambino, nel senso vero del termine esserci – la prima cosa che fa è immortalare quel momento per documentarlo (seppure con buonissime intenzioni), questo porta il bimbo – in quel momento – a non percepire il care giver che viene mediato attraverso il dispositivo».
«Questo – prosegue lo psicologo – porta a una serie di ripercussioni, anche immediata, sulla sintonizzazione emotiva. Questa, che avviene attraverso un processo di sguardi dove il bambino si sintonizza emotivamente con il care giver, se c’è un dispositivo di mezzo viene mediata». Nello sviluppo della modalità di attaccamento, quindi, «abbiamo questo terzo che si frappone tra care giver e bambino non facilitando la relazione e che, anzi, la disturba». Questo, spiega Russo, «può avere ripercussioni e conseguenze anche nel futuro, influenzando il modo in cui il bambino costruisce la propria identità e il modo in cui si rappresenta. Questo può dare luogo anche allo sviluppo di un falso sé, la costruzione di un’identità che non è autentica ma che è stata costruita su un’apparenza».
La conflittualità tra i genitori quando si tratta di condividere i bambini
Un’altro aspetto sicuramente interessante evidenziato da Russo riguarda la conflittualità in quelle coppie di genitori in cui uno vuole condividere materiale sul bambino e l’altro no (con tutto ciò che ne consegue): «Spesso i genitori non sono entrambi d’accordo nel fotografare e immortalare il bambino e questo può creare, a lungo andare, un disaccordo tra i genitori stessi che si vedono poi a dover affrontare la crescita del bambino in posizione completamente differenti; anche all’occhio del bambino – perché spesso i due litigano davanti a lui – traspare una modalità di genitorialità e di accudimento in cui è evidente la mancanza di accordo. Questo può causare, nel bambino, sentimenti di colpa e può farlo sentire solo uno strumento di questa situazione».
«Vanno distinti, inoltre, i genitori che fanno sharenting per una questione di monetizzazione e quelli che lo fanno per mettere in mostra ciò che hanno. Non necessariamente uno esclude l’altro, ma non sono solo gli influencer che fanno lo sharenting, anche quelli che vogliono diventarlo o quelli che vogliono condividere a tutti i costi la loro vita sui social, creando un’identità che non è più la loro ma che si crea tramite l’esposizione dei figli», prosegue Russo.
«Sharenting è anche avvicinamento precoce del bambino alla tecnologia»
«Con tutte le conseguenze che ciò comporta – prosegue il professore. Se mettiamo il bambino già in età precocissima davanti a quello strumento perché dobbiamo fargli la foto, perché dobbiamo fargli un video, è come se rendessimo questo strumento appetibile per lui». Pur se messo in contatto con lo strumento da lontano, nelle mani dei genitori, lo psicologo sottolinea come sia inevitabile che il piccolo quello strumento, a un certo punto, lo voglia. «E non credo che un genitore che utilizza queste modalità poi si sottragga nel dare al piccolo lo strumento, anzi, magari lo fotograferà mentre il bimbo utilizza lo strumento stesso», conclude lo psicologo.
Ci sono poi una serie di rischi macro, nello sharenting: «Hanno a che fare con il cyberbullismo: esternalizzare la vita privata, chi ero prima che tu mi conoscessi. Il bambino che cresce, che diventa adolescente, ha già una storia digitale che lo precede. Una storia che rischia di creare degli stereotipi su quel ragazzino, su quella situazione, su qualcosa che magari la madre credeva buffa cinque o dieci anni fa e che invece diventa motivo per cui il ragazzino viene preso di mira sia nel futuro che nel presente». Così come Sarpato, anche Russo concorda nel parlare di un rischio ormai noto ai più: la pedopornografia. «Sappiamo che quando facciamo circolare qualcosa di digitale nella rete, noi perdiamo automaticamente il controllo perché oggi salvare un’immagine è facilissimo. Tu non hai nessuna garanzia del fatto che quell’immagine, una volta che la rimuovi dall’account social, venga completamente eliminata».
L’inconsapevolezza dei genitori, la consapevolezza degli adolescenti
«Credo che nei genitori, salvo rarissimi casi, non ci sia un’intenzione di danneggiare il proprio figlio. Ciò che è stato dimostrato sia dalla letteratura scientifica che da quella clinica è che c’è una mancanza di consapevolezza sia per quanto riguarda le conseguenze, sia per quanto riguarda i danni che l’utilizzo così continuativo di questi strumenti può fare: il bambino viene stressato, gli viene chiesto di uscire dal suo mondo ludico e di giochi per cui gli viene chiesto di sorridere alla telecamera e solo dopo potrà tornare ai suoi giochi. È come se – evidenzia il docente – il bambino dovesse estraniarsi un momento della realtà per diventare uno strumento, un modellino per essere immortalato».
Le conseguenze di questo comportamento – «che a lungo andare può avere un impatto anche sull’autostima del bambino e sulla costruzione della sua identità» – i genitori non ce le hanno quindi presenti ed entrambi gli psicologi sullo sharenting concordano. Parlando della sua esperienza persona, lo psicologo spiega a Giornalettismo che «è molto raro che un genitore venga per autodenunciare lo sharenting, molto più probabile è che arrivi un bambino che mostri problematiche legate alla presenza di insicurezze, bassa autostima eccetera, in cui si possa evincere – grazie alla raccolta anamnestica e colloqui – che questo bambino è stato messo all’interno di una situazione che includeva anche lo sharenting».
«Molti casi che ho seguito hanno a che fare soprattuto con gli adolescenti nel conflitto genitore-figlio. In molte situazioni mi sono visto arrivare figli che redarguiscono i genitori su quello che è successo e sono molto arrabbiati con i genitori per ciò che hanno fatto. Una volta che il figlio assume maggiore consapevolezza, quindi, e magari ha subito anche episodi di bullismo, viene tirato fuori il genitore: “papà e mamma mi hanno esposto in passato a questo aspetto”». Ci sono adolescenti che – dimostrando maggiore consapevolezza dei loro genitori rispetto alla costruzione dell’identità digitale – fanno una colpa ai genitori del fatto di averli esposti così tanto. «E lei pensi – prosegue Russo nel dialogo – quanto questo possa essere invalidante per il genitore, che a quel punto perde autorevolezza con il figlio e che si ritrova ad essere anche più “ricattabile”, nel senso che il figlio può dire “tu mi hai fatto questo da piccolo, ora non lamentarti se io faccio quest’altro».
Psicologi sullo sharenting e sulla diffusione di consapevolezza
In conclusione, dopo aver analizzato il fenomeno, entrambi gli psicologi sullo sharenting hanno espresso un parere concorde. «Occorre educare all’uso dei social non solo i bambini e i ragazzi, ma i loro genitori. Come sempre, l’esempio è il primo strumento educativo. Il più potente. Occorre informare sugli effetti che questo fenomeno può avere sulla vita dei bambini e, poi, sugli adulti che saranno. Pensiamo a quando questi bambini faranno un colloquio di lavoro o conosceranno persone nuove: parte della loro vita sarà alla mercé di tutti, senza che loro ne siano stati coinvolti», osserva la dottoressa Sarpato.
«La cosa che non dobbiamo fare, innanzitutto – afferma Russo – è puntare il dito sui genitori. Il rischio è che poi il genitore si senta soltanto attaccato e non collabori. L’informazione, la psicoeducazione, rendere il genitore più consapevole dei rischi collegati a questo fenomeno è importante. Proprio come state facendo voi in questo articolo, coinvolgendo anche degli esperti che si occupano anche di questi aspetti, è molto importante».
«Si tratta, inoltre, di aiutare il genitore a capire dove finisce la sfera privata – che può essere estesa al massimo anche ai parenti di primo grado – e dove inizia quella pubblica. Anche alla condivisione sui gruppi Whatsapp mi viene da pensare: a meno che non ci sia un accordo all’interno del gruppo in solo familiari e nel quale la raccomandazione di non diffondere viene fatta e rispettata, può capitare anche di sbagliare e mandare foto in gruppi in cui non le si voleva mandare. Può capitare e capita spesso quindi, in conclusione, meno si diffondono le foto dei minori e meglio è. Se proprio uno vuole condividere che al bambino è caduto il primo dentino, si può oscurare il volto del minore mettendo una faccina – qualsiasi cosa – limitando però fortemente la circolazione dell’immagine. Si può scrivere, quello si, quello che è successo per segnare una tappa perché si sente il bisogno di documentarlo attraverso i social però, quantomeno, garantendo la privacy al bambini perché lui non è consapevole della scelta che fa il genitore, scelta che influisce sia nel presente che nel futuro». Mettere al centro l’educazione dei genitori, secondo gli psicologi sullo sharenting, è quindi centrale.