Perché con l’omicidio di Hevrin Khalaf si è voluta uccidere la speranza

Ci sono fotogrammi di fronte ai quali è impossibile chiudere gli occhi. Si sedimentano nel flusso di morti e violenze che contraddistinguono ogni guerra fino a diventare il segno nitido dell’orrore, dell’abisso che si cela dietro quel fragile e precario equilibrio che chiamiamo civilità. La foto di una bambina che correva scappando dalle bombe al napalm americane servì al mondo ad aprire gli occhi sugli orrori della guerra del Vietnam, le bombe fatte esplodere nel 1995 nel mercato di Sarajevo ridestarono un’Europa sonnolenta sulla mattanza che si stava consumando alle porte di casa. È presto per dire se anche le orribili immagini dell’assassinio di Havrin Khalaf, l’attivista curda, barbaramente uccisa sabato scorso da milizie arabe alleate di Ankara (stando a fonti curde), sortiranno lo stesso effetto. Certo è che, anche in questo caso, i fotogrammi sono impossibili da rimuovere. E l’impressione è che si sia voluto abbattere un simbolo, la possibilità di una strada diversa.

«È tragicamente ironico, ma l’obiettivo di Hevrin Khalaf era anche quello di migliorare i rapporti con la Turchia. Il partito di cui era segretaria, il Partito Futuro siriano si era formato a Raqqa nel 2018, grazie anche all’appoggio americano , non era propriamente un partito “curdo”, ma piuttosto una forza multiculturale e multietnica che voleva trovare un dialogo con Ankara e in questo era radicalmente differente dalle altre forze dell’area (vedi Ypg) da sempre scettiche su un avvicinamento alla Turchia» spiega Rosa Gilbert, ricercatrice e co-segretaria del Kurdistan Solidarity Campaign, gruppo attivo dal 2017 con l’obiettivo di creare un ponte tra le associazioni sindacali, civili e politiche britanniche e la causa curda. E non esita a puntare il dito sulle responsabilità di Ankara «la sua morte, per mano di milizie di guerriglieri dell’FSA (Free Syrian Army, gruppo variegato di forze di opposizione contro il regime di Baššār al-Asad N.d.r.)  sostenuti dalla Turchia, indica chiaramente che l’obiettivo non è solo il PKK o le milizie dello YPG, ma tutti i curdi che vogliono lottare per i loro diritti».

Khalaf, il volto di un Kurdistan pluralista e tollerante

«Khalaf era un esempio della realtà plurale, multietnica e tollerante della Federazione Democratica della Siria del Nord, un sistema basato sulla parità di genere che incoraggia le donne ad assumere leadership e cariche politiche. I guerriglieri siriani sostenuti da Ankara odiano l’emancipazione femminile, mentre i Turchi odiano l’emancipazione dei curdi. Per anni la Turchia ha finanziato alcuni delle peggiori, depravate e scioviniste forze islamiste in Siria, e sarebbe ora di arrivare a delle sanzioni internazionali» argomenta la Gilbert che aggiunge «il Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord Est N.d.r.) è l’unica frazione della Siria dove è consentito l’aborto. Politicamente tutti i ruoli si fondano sul principio della parità di genere, una consuetudine anche nel Kurdistan turco. Militarmente le donne dello YPG erano diventate un simbolo perché nello sciovinismo patriarcale dell’Isis essere uccisi da una donna era considerato un’onta».

E il nord della Siria rappresenta una sorta di isola per molte minoranze: dagli Yazidi agli Assiri, dagli arabi ai curdi, fino ad alcuni degli armeni discendenti del genocidio turco di 100 anni fa; tutti questi gruppi sono ora sotto la costante minaccia delle bombe di Ankara. Una situazione che richiede azioni tempestive e decise: «Innanzitutto l’Europa non dovrebbe più vendere armi alla Turchia e predisporre sanzioni politiche ed economiche, visto che una delle cause della guerra è la difficoltà interna di Erdogan, alle prese con un’economia stagnante e un’inflazione crescente» ma per Rosa Gilbert, questa è solo la punta dell’Iceberg «L’Europa dovrebbe  rinnegare patti scellerati in cui si forniscono soldi a dittatori o governi autoritari in cambio della gestione dei rifugiati. Inoltre dovrebbe riconoscere lo stato curdo e sostenere attivamente l’opposizione che sta venendo progressivamente soffocata dal regime di Erdogan. Dobbiamo stare dalla parte di chi si oppone a questa guerra anche in Turchia, e che per farlo rischia anche l’incolumità fisica».

 

 

 

 

 

 

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