Momo Challenge, l’ennesima leggenda metropolitana che spaventa i genitori sui social network

Inizialmente fu la Blue Whale, poi Slanderman e ora la Momo Challenge. Si tratta di leggende metropolitane, se non addirittura fake news, che diventano reali per colpa del panico scatenato dall’ipotesi della loro esistenza. Un cane che si morde la coda, ma che può avere effetti devastanti, scatenando emulazioni.

Momo Challenge: come nasce la bufala che spaventa i genitori

In Italia ancora la “momo Challenge” non è arrivata, ma come è successo con la Blue Whale è probabilmente solo una questione di tempo. A fare la differenza stavolta, potrebbe essere il fatto che in Italia già sappiamo che la storia non è vera. Momo Challenge nasce da una scultura di un artista giapponese, Keisuke Aso, che l’aveva creata per la compagnia di effetti speciali Link Factory. La scultura titolata “madre uccello”, divenne parte di una mostra nel 2016.

In un’intervista con il The Sun, Keisuke ha spiegato che si era ispirato ad una leggenda giapponese di una donna morta di parto, che si trasforma in una donna-uccello per infestare la zona dove era deceduta. «Quando l’ho creata avevo l’intenzione di spaventare la gente – ha spiegato Aso –  È un mostro, mi occupo di questo tipo di cose, realizzo cose spaventose con la scultura o con il trucco». Di certo non si aspettava che la foto della sua statua diventasse virale ed usata in questo modo.

Dal primo scatto alla Vision Gallery,  l’immagine della figura mitologica con gli occhi sporgenti, il volto allungato e un sorriso inquietante, è diventata virale, trasformandosi in “Momo”.

https://www.instagram.com/p/Bs0_rcRjRaJ/

La leggenda metropolitana, forse nata in Sudamerica, era che “Momo” scrivesse messaggi su Whatsapp lanciando maledizioni e  minacce di morte. Una sorta di storia alla The ring: se vedi la foto di Momo, e se sopratutto ricevi un suo messaggio, morirai.  Il problema è che nessuno, fino a quel momento, aveva effettivamente riscontrato nulla di simile. Non c’erano chat, non c’erano suicidi, non c’erano prove: c’era solo la paura dei genitori. Il risultato è stato che molte persone, mitomani o con un pessimo gusto per gli scherzi, hanno voluto trasformare la leggenda in realtà, cambiando la loro immagine profilo di whatsapp con Momo e inviando messaggi macabri. Poi, seguendo l’esempio della Blue Whale, la minaccia di Momo si sarebbe trasformata in una sfida, dove Momo obbliga gli adolescenti a sottoporsi a prove pericolose tenendo all’oscuro i genitori.

Il post della polizia irlandese e la legittimazione sui social

L’allarmismo per una cosa che non esisteva ha raggiunto livelli preoccupanti: le scuole hanno inviato email ai genitori dicendo di monitorare attentamente l’attività sui social dei figli e diverse stazioni di polizia hanno lanciato lo stesso appello. In particolare il post su Facebook della polizia dell’Irlanda del Nord sarebbe stato determinante: dopo la pubblicazione, la viralità della Momo challenge è esplosa una volta per tutte. Secondo alcune interpretazioni  il post della polizia ha reso la storia credibile legittimandola a tutti gli effetti. Poi ci si è messa Kim Kardashian, che ne ha parlato nelle sue Instagram stories, avvertendo i suoi milioni di followers di tenersene alla larga. Risultato: viralità dell’ennesima potenza.


«Momo è morta»

L’autore della scultura originale di Momo ha detto al The Sun che da un lato la viralità dell’immagine ha accresciuto la sua popolarità come artista, ma che dall’altro non era certo felice del modo in cui veniva utilizzata. Sopratutto, Keisuke Aso ha dettosi aver deciso di distruggere la scultura prima di venire a conoscenza della Momo Challenge. La statua infatti era diventata «troppo vecchia» e alcune parti, realizzate con cera e oli, si stavano deteriorando. L’unica cosa che è sopravvissuta di lei è un occhio, che l’artista intende riutilizzare per un’altra opera, come spiega nella video intervista del The Sun. Infine, Aso ha detto che «i bambini possono essere rassicurati Momo è morto: lei non esiste più e la maledizione è sparita». Fine della storia, si spera.

(credits immagine di copertina: Instagram mirror.haus)

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