Luciano Floridi spiega perché sul diritto all’oblio in rete ci sia ancora da fare

C’è ancora bisogno di un diritto all’oblio su misura per Internet. Lo spiega a Il Messaggero il filosofo romano Luciano  Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford. Floridi non è uno qualunque: è membro del ristrettissimo comitato per il diritto all’oblio di Google. Il gruppo è stato incaricato di trovare il punto di equilibrio tra

l’anonimato di chi compie le ricerche e la salvaguardia della reputazione di Google come motore di ricerca privilegiato. Ecco parte dell’intervista rilasciata a Michele Neri.

All’inizio del lavoro nel team di Google, lei ha accennato alla necessità di uno sforzo controintuitivo – usò la metafora del salto alla Fosbury – per far coesistere privacy e diritto d’informazione. Ci siete riusciti?
«Ci siamo riusciti solo in parte. L’erosione della privacy continua, ma diciamo che è stata molto rallentata, anche se non invertita. È un peccato, ma vorrei essere fiducioso. Avendo invertito la rotta, possiamo recuperare il terreno perduto, per continuare nella metafora dell’erosione. Ma serve molto di più di un semplice sforzo a livello legale o normativo. Serve uno sforzo socio-politico e culturale, che incentivi la protezione della privacy, e che non punisca solo il suo mancato rispetto».

Che cosa pensa del nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) dell’Unione europea, in vigore dal prossimo 25 maggio?

«Il Gdpr è una buona piattaforma dalla quale partire. Ha come limite il fatto che si tratta di un compromesso tra tante mentalità e esigenze diverse a livello europeo, e inevitabilmente la sua gestazione non accoglie le ultime trasformazioni tecnologiche in termini di fake news, intelligenza artificiale, ingerenza politica di bots, nuovi algoritmi (deep learning) e così via. Essendo uno strumento legale non può e non deve rimpiazzare la strategia politica, la quale dovrà indirizzare quale società dell’informazione vogliamo sviluppare in Europa».

Tra i rischi, lei ha indicato il fatto di vivere dentro una bolla d’informazioni…
«Viviamo sempre in qualche bolla informativa, fatta dalle circostanze in cui ci troviamo e comunichiamo. Il problema sorge quando la bolla è singola, impermeabile e immutabile, con tutti che la pensano ugualmente sulle stesse cose. È confortevole, ma rafforza le nostre opinioni che, senza essere sfidate, avvizziscono nell’ignoranza».
Che cosa la rende ottimista e cosa pessimista?
«Sono ottimista sulla nostra capacità di creare soluzioni tecnologiche sempre migliori, ma non sulla nostra capacità di usarle al meglio. La tecnologia potrebbe aiutarci nel sostenere strategie verdi (ambientalismo) e blu (digitale) per una crescita sostenibile ed equa. La vera sfida non è l’innovazione digitale ma la sua governance.
Per questo servirebbe una politica del digitale informata, intelligente, avveduta e cosmopolita. Capisce quindi il mio
limitato ottimismo»

(Foto Christoph Dernbach/dpa)

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