La Cassazione considera l’algoritmo di Facebook: il like al post razzista può essere istigazione all’odio

L'analisi di una sentenza del tribunale del riesame ha portato la suprema corte a intervenire su questo tema

14/02/2022 di Gianmichele Laino

Un like di odio. La sentenza numero 4534 della Cassazione ha respinto un ricorso contro la decisione del tribunale del riesame di valutare, come prova dell’istigazione all’odio razziale, anche le interazioni – i like – che l’utente aveva disseminato sul social network attraverso profili a lui riconducibili. Si trattava di interazioni di approvazione nei confronti di contenuti che, su Facebook, VKontacte e Whatsapp, puntavano a mettere in evidenza una manifestazione di pensiero antisemita e razzista. Secondo i difensori dell’utente, non c’erano gli estremi per considerare questi like come prove per valutare la sussistenza di un reato di specie: il fatto di aver messo like non contemplava la possibilità di un incontro fisico con gli autori materiali di post o di articoli antisemiti o razzisti. Tuttavia, la Cassazione ha valutato diversamente, tenendo in considerazione anche un aspetto dell’algoritmo del social network di Mark Zuckerberg.

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Like e istigazione all’odio, la sentenza della Cassazione

Secondo la Cassazione, il fatto che l’algoritmo di Facebook si “nutra” di like rappresenta un discrimine rilevante per valutare un comportamento. La diffusione di un post, infatti, è tanto più alta quanto maggiore è la portata di interazioni, commenti, condivisioni. Dunque, una persona che metta un like a un post si rende responsabile della possibilità che quel post o quel commento abbia una maggiore visibilità anche presso altri utenti. In virtù di questo fatto, dunque, anche la semplice interazione può essere annoverata tra gli indizi che concorrono alla costruzione dell’accusa per il reato di istigazione all’odio.

Nei post che risultavano graditi all’utente e ai suoi profili, c’erano riferimenti all’identificazione della comunità ebraica come “vera nemica” e si puntava decisamente sul negazionismo della Shoah e dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Il fatto che l’utente avesse messo like, pur senza aver mai incontrato di persona l’autore di quei messaggi, ma avendolo soltanto “seguito” in una comunità virtuale che propagandava questo tipo di contenuti, è ritenuto un indizio per definire l’eventuale istigazione all’odio.

Foto IPP / Vincenzo Bruni Roma

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