«Il caso Internet Archive? È come voler svuotare il mare col secchiello», l’intervista a Lele Rozza (Blonk editore)

Abbiamo parlato con il Direttore editoriale di Blonk, editore che fu tra i primi a puntare tutto sul libro in formato elettronico

22/03/2023 di Redazione Giornalettismo

Nel 2011, la città di Pavia diede i natali a un progetto innovativo per quel che riguarda l’editoria: il suo nome è Blonk e si tratta di un editore che, fin dall’inizio, ha puntato tutto sulle pubblicazioni in formato e-book. All’epoca, sono ormai passati 12 anni, questa idea rappresentava quasi un unicum per il mercato italiano. Un’intuizione corretta che, poi, ha portato al percorso inverso: dopo aver puntato tutto esclusivamente sui libri digitali, nel 2015 l’editore pavese decise di aprirsi a una nuova fetta di mercato, quella del libro fisico. Erano gli anni in cui internet iniziava a diventare uno strumento sempre più diffuso. Erano i tempi in cui si iniziavano a palesare anche tutte quelle imperfezioni e storture che oggi sono sempre più evidenti. Era il periodo in cui un’idea geniale si sarebbe potuta trasformare in un progetto vincente. Da quell’ormai lontano 2011, il Direttore Editoriale di Blonk è Lele Rozza e proprio con lui, vista la sua esperienza, abbiamo voluto parlare del caso Hachette (e altri editori) contro Internet Archive.

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Perché la causa intentata da quattro grandi editori nei confronti della biblioteca online no-profit ha tutte le premesse per intraprendere due epiloghi diametralmente opposti: la vittoria da parte di Hachette (e altri) contro Internet Archive, quindi la ridefinizione dei paletti del diritto d’autore per quel che riguarda le copie digitalizzate, o il mantenimento dello status quo. Senza smuover nulla, come accadde già nel 2005 nel caso della Authors Guild of America contro Google.

Lele Rozza, il punto di vista di Blonk sul caso Internet Archive

Lele Rozza, ai microfoni di Giornalettismo, ha le idee molto chiare sulle dinamiche che hanno portato a questa causa che ha attirato l’attenzione di tutto il mondo. E spiega il suo pensiero con un parallelismo: «Per un editore come noi è relativamente facile dire “molto rumore per nulla”. Cercare di contrastare il digitale, oggi, in quel modo è come cercare di svuotare il mare con la paletta e il secchiello. È oltremodo evidente quanto questa situazione sia difficile da gestire. Provo a mettermi nei panni di uno degli editori che hanno intentato la causa contro Internet Archive e che si trovano nella posizione di voler recuperare le vendite che si perdono sempre di più, perché il mercato alterna periodi positivi a quelli negativi, e quindi cerca di intervenire dove e come può. Ma il caso di specie mi lascia molto perplesso, perché cercare di marginare dopo aver venduto alle biblioteche il proprio testo e cercare di marginare offrendo ulteriori licenze sul testo marginale mi sembra un approccio un po’ rapace. Dopodiché comprendo che la salvaguardia del proprio mercato possa essere una delle istanze fondamentali di qualsiasi azienda».

Una salvaguardia che si scontra con quel concetto di fair use indicato sia nel Copyright Act americano e che nella sentenza della Corte di Giustizia UE: «Il fair use è un ombrellone dentro cui ci si può mettere tutto o quasi niente, perché è una cosa abbastanza labile. Su queste vicende, l’elemento di grande complessità è capire cosa vogliamo normare. Da un certo punto di vista, la causa in atto in questo momento secondo e arriva a vietare il prestito alle biblioteche. Perché se noi stiriamo questa questione, a un certo punto un editore dirà “va bene, però se io un libro solo lo faccio leggere a tante persone, sto perdendo dei soldi”. Non so quanto inseguirsi su questo aspetto sia un elemento che possa dare una reale risposta. Perché io credo che dobbiamo ripensare, come evidente da quel che sta succedendo a tutti coloro i quali producono contenuti su internet e per internet, ai modelli di business più che a un modo per blindare contenuti che per definizione non sono più blindabili. Se fosse possibile blindare dei contenuti è un conto, ma siccome non si può perché fatto un DRM (Digital Rights Management, ndr) si trova un modo per craccarlo, allora forse si potrebbe fare una valutazione di questo tipo invece di perdere tempo in cause».

La strategie di Blonk

Lele Rozza ci ha anche spiegato la strategia di Blonk per proteggere il suo diritto d’autore digitale, con una chiave (ma anche un principio di applicazione) differente rispetto a quello standardizzato: «Noi nella storia abbiamo sempre scelto di semplificare la vita al prossimo. Per questo utilizziamo per i nostri e-book il social DMR che, a differenza dei DRM tecnologici, è un timbro che dice “questo libro lo ha comprato Tizio, quindi se ce lo hai tu e te lo ha dato Caio vuol dire che Caio è uno che ruba i libri”. Questo è il massimo a cui noi ci siamo spinti, anche perché crediamo che valga la pena costruire una relazione con i lettori più che costringere i lettori a una corsa a ostacoli».

Dunque, un atteggiamento proattivo nel tentativo di creare una fidelizzazione e un rapporto di onestà tra l’editore e il lettore: «Noi di Blonk ci siamo sempre posti il problema di farci volere bene dai nostri lettori. La cosa su cui noi abbiamo sempre ragionato è stata quella di trovare il modo per far sì che il valore fosse tale da convincere il lettore a dare 8 euro a un editore che produce dei buoni contenuti, piuttosto che non spendere 8 euro ma mettere in difficoltà questi produttori di contenuti. Il fatto che ci si dica che ormai le persone sono abituate ad avere tutto gratis su internet, produce l’effetto che i contenuti su internet sono molto spesso brutti, fatti male. Spazzatura. Abbiamo un sacco di cose che non meritano l’investimento di tempo per la lettura. E noi continuiamo a lamentarci di ciò senza trovare e cercare mai una revisione di questa dinamica. Cerchiamo un avvocato che possa blindare il nostro contenuto in odo che le persone non ce li rubino. Non è un meccanismo che funziona da nessuna parte. Il fatto che noi non si debba essere filantropi è un dato di realtà, ma il fatto che non si può fare a meno del digitale e che non si possa fare a meno di vendere il digitale, chiede – secondo me – più che una formula legale, chiede un nuovo patto con i lettori, un nuovo patto con i produttori di contenuti. Probabilmente, dunque, ripensare meccanismi di pricing e di immagine».

Ma c’è la possibilità che questa situazione mutui nel corso dei prossimi anni?«In questo momento – conclude Lele Rozza – noi viviamo questo buffo paradosso per cui la cosiddetta editoria indipendente è fatta di santi, pirati, corsari o persone che solcano questi mari difficilissimi facendo gli eroi della cultura. Poi ci sono i grandi editori che sono feroci e rapaci, degli orchi che se la campano sulle spalle dei poveri autori. Probabilmente si potrebbe re-immaginare questo immaginario, cercando di fare un ragionamento completamente diverso. Perché così non si va da nessuna parte».

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