La storia della Svezia che deve restituire oltre un milione di dollari a uno spacciatore

All'epoca del suo arresto, all'uomo erano stati sequestrati 33 bitcoin. Il loro valore, è cresciuto nel tempo e ora lo Stato può trattenere solamente il "valore" della criptovaluta al momento del dispositivo giudiziario (circa 100mila dollari) e versare nelle casse del pusher il disavanzo

26/08/2021 di Enzo Boldi

La storia di un arresto per traffico e spaccio di sostanze stupefacenti che si intrinseca con la crescita esponenziale del valore delle criptovalute. La vicenda è avvenuto in Svezia, dove lo Stato dovrà rimborsare un pusher per oltre un milione di dollari. L’uomo, al momento del suo fermo, era stato raggiunto anche da un dispositivo che imponeva il sequestro di 36 bitcoin in suo possesso. All’epoca dei fatti, era il 2019, il valore della criptovaluta era molto più basso rispetto a quello attuale. Per questo motivo, adesso, lo Stato svedese potrà trattenere solamente il valore dei token al momento del sequestro (circa 100mila dollari) e dovrà versare nelle tasche dell’uomo il disavanzo generato dal valore corrente del Bitcoin.

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La vicenda paradossale inizia due anni fa. All’uomo, arrestato per spaccio di droga, sono stati sequestrati 36 Bitcoin di cui era in possesso. Secondo le strategie iniziali, lo Stato doveva mettere all’asta quei token. Ma le cose sono andate in modo molto diverso. Di quelle 36 monete virtuali, infatti, solamente tre sono state vendute, perché la crescita esponenziale del valore della criptovaluta ha fermato le mire di chi voleva partecipare a quell’asta. Insomma, 33 Bitcoin sono rimasti invenduti.

La Svezia deve restituire il valore dei Bitcoin a un pusher

Ed è qui che si genera il paradosso. Essendo una “moneta corrente“, seppur in modo digitale, il valore varia in base alle oscillazioni di mercato. All’epoca del sequestro il prezzo dei Bitcoin – al cambio – si attestava attorno ai 100mila dollari ed è questa l’unica cifra che la Svezia potrà trattenere. Il disavanzo, cioè il controvalore tra il valore iniziale e quello attuale, è stato pagato allo spacciatore che, di fatto, ha visto remunerato quel suoi investimento in criptovalute, nonostante il sequestro giudiziario.

Il procuratore ha ammesso l’errore (e la sottovalutazione della questione)

Un problema sottovalutato da chi era chiamato a decidere all’epoca dell’arresto e del sequestro. Ed è lo stesso procuratore ad aver ammesso l’errore: «Il modo in cui ho deciso di argomentare il caso è stato alquanto infelice. La lezione da trarre da questo incidente è che si deve mantenere il valore in Bitcoin. Il profitto del crimine è stato di 36 BTC, in consegna dal valore che Bitcoin aveva allora. Questo ha portato a conseguenze che all’epoca non ero in grado di prevedere». Questo caso conferma ancora di più l’esigenza – per ogni singolo Paese – di aggiornare le proprie leggi in base all’evoluzione tecnologica e digitale.

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