Italia addio: ecco qual è l’emigrazione che dovrebbe preoccuparci

Ogni anno gli abitanti di una città di media grandezza, come Rimini o Livorno, decidono di fare le valigie e stabilirsi all’estero. Sono stati infatti oltre 140 mila i nostri connazionali che nel corso del 2018 hanno deciso di lasciare il nostro Paese e stabilirsi altrove. Nel corso degli ultimi 12 anni, gli italiani che hanno regolarmente preso residenza all’estero sono invece circa 2 milioni: una quantità equivalente alla somma degli abitanti di Milano e Palermo. Un trend che dal 2008, anno dell’inizio di una crisi epocale, ha cominciato a correre e non si è più fermato. Una tendenza che racconta, come forse niente altro, il declino di un Paese, e che potrebbe essere addirittura peggiore rispetto alle stime ufficiali.

Secondo Il dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos, solo nel 2016 i numeri erano di gran lunga maggiori rispetto a quelli forniti dalle istituzioni. L’analisi che, prendeva spunto dai servizi statistici dei maggiori paesi di destinazione, piuttosto che dalle cancellazione dalle anagrafi comunali italiane (e dalla relativa iscrizione all’Aire), fissava l’asticella delle partenze a 250mila unità per anno: cifre da capogiro, che riportano il nostro Paese agli anni ’50.

Saldo migratorio: così l’esodo dei nostri laureati penalizza lo stato

Ma restando alle cifre ufficiali, l’emorragia di connazionali è ben visibile dal saldo migratorio ISTAT: un trend che si consolida durante il picco della crisi economica, fino ad acquisire un andamento quasi irreversibile. Un esodo ormai generalizzato che ha interessato, negli anni della crisi, anche le persone di mezza età o gli anziani, non ultimi i pensionati italiani alla ricerca di paesi con tassazioni minori.

Ma se a emigrare sono persone di ogni età ed estrazione sociale, il saldo è particolarmente preoccupante quando analizziamo le statistiche relative alle persone più formate e istruite. In cinque anni l’Italia ha perso oltre 156 mila laureati e diplomati. Nel 2017, secondo l’Istat, più della metà dei cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero (52,6%) era in possesso di un titolo di studio medio-alto: parliamo di circa 33 mila diplomati e 28 mila laureati. E l’esodo comporta una spesa per lo Stato, e per le tasche di tutti, non esigua. Secondo stime OCSE, lo stato italiano spende circa 77 mila euro per formare un diplomato, 164 mila euro per un laureato e ben 228mila per un dottore di ricerca.

«L’emigrazione non è per forza un male, lo diventa quando piuttosto che una scelta diventa una necessità» sottolinea Giuseppe Massafra, membro della segreteria nazionale CGIL e responsabile delle politiche giovanili «L’esodo dall’Italia è generalizzato, non è costituito solo di laureati, ma i lavoratori più formati espatriano anche per via del sotto-inquadramento, che è una caratteristica strutturale di questo paese: l’Italia è uno dei paesi dove avvengono più episodi di sotto-inquadramento professionale in Europa, chi ha più competenze da spendere capisce che le opportunità per spenderle sono poche. Un fenomeno se vogliamo paradossale in un Paese che ha un numero di laureati inferiore a molti altri paesi europei. Ma anche chi non ha un alto livello di istruzione sceglie spesso di andare all’estero perché sa che lo aspetta un percorso di crescita professionale che in Italia spesso non avviene».

Cambiano le dinamiche migratorie: si parte anche da Nord

Nel 2018 la Germania ha superato il Regno Unito come “terra promessa”: sono quasi 20mila gli italiani che hanno decisi di spostarsi stabilmente nel paese. Seguono Regno Unito, Francia, Svizzera, Spagna e anche paesi di consueta immigrazione per gli italiani come Germania e Brasile.

Ed è, come previsto il Sud ha far registrare storicamente il maggior esodo di immigrati. Un’evidenza particolarmente visibile in regioni come il Molise, dove il rapporto tra la popolazione all’estero e quella residente e pari addirittura al 28%, o di Basilicata e Calabria, con rapporti che contano rispettivamente medie del 22% e del 20%. Un trend che sembra risentire della tendenza storica delle popolazioni del sud a emigrare, ma che non tiene conto delle nuove tendenze migratorie.

Nel corso dell’anno che ci ha appena lasciato è stata la Lombardia la regione dove, in termini assoluti, si sono spostati il maggior numero di “Expat”(21.980) seguita da Veneto (11.132) e Sicilia (10.649). In termini relativi è invece la Liguria la regione che ha fatto registrare le uscite di popolazione più evidenti, qui le persone che hanno deciso di andare all’estero nel 2018 sono circa lo 0.47% della popolazione residente. Seguono regioni come Trentino Alto Adige (0.31%), Friuli (0,26%) e Calabria (0,26%). In proporzione però non si registra più il brusco scarto tra le regioni più ricche e più povere del Belpaese, segno che, come osservato dall’Istat, è la tipologia di emigrazione ad essere cambiata negli anni e costituire la reazione e il riflesso di un paese ormai drammaticamente fermo da almeno 20 anni. «Si è creato un circolo vizioso in cui alla scarsa offerta di competenze, si verifica una scarsa domanda di competenze, sono meccanismi che si auto-alimentano: è molto più facile che chi sia già formato o abbia volontà di crescere guardi fuori dal nostro Paese» osserva Massafra, commentando i nuovi trend migratori.

Una paralisi lunga 20 anni

C’è un dato, più di ogni altro, che fotografa l’immobilismo italiano degli ultimi 20 anni. L’andamento del nostro Prodotto Interno Lordo dal 2000, comparato con quello dell’Unione Europea mostra tutti i limiti di un paese che ha smesso di crescere secondo parametri occidentali ed europei, con tutti i problemi di occupazione, debito pubblico, risorse aggiuntive per Welfare e formazione che ne conseguono. La crescita del PIL italiano si attestava su standard europei nel 2000 per divorziare da quella europea e crollare letteralmente durante gli anni della crisi, il periodo in cui l’emigrazione italiana si fa più sostanziosa. Una dinamica a cui contribuiscono molti fattori, non ultimo il peso consistente dell’economia sommersa, delle mafie e dell’evasione fiscale, ma al quale probabilmente contribuisce anche un modello di sviluppo ormai consolidato.

Un modello di sviluppo basato sull’abbassamento dei costi

Al netto delle differenze fiscali dei vari Paesi, il nostro paese è il terzultimo per retribuzione medie, se confrontata con i paesi europei di maggiore emigrazione italiana. Il problema è, anche in questo caso la sostanziale stagnazione dei salari dal 2000 in poi, che proietta le retribuzioni medie del nostro Paese molto lontano da molti Paesi e in un “testa a testa” con la Spagna, che partiva, all’inizio del millennio, molto più indietro di noi.

Un andamento che configura un vero e proprio modello di sviluppo dove, all’aumento della produttività e agli investimenti verso innovazione e ricerca, si sostituisce l’abbassamento del costo dei lavoro (e il relativo sotto-inquadramento dei lavoratori) come leva principale del profitto: «Il mancato riconoscimento delle competenze è anche funzionale a tenere basso il salario, è un vero e proprio modello di sviluppo basato sull’abbassamento dei costi. Da un lato abbiamo una tassazione alta, dall’altra delle retribuzioni molto basse. La competitività viene ricercata spesso solo tramite l’abbassamento dei costi, piuttosto che sulla produttività e l’innovazione » sottolinea Massafra.

E la dinamica si riflette ovviamente anche sulla disoccupazione. Con un tasso di disoccupazione de 10.8% l’Italia è il fanalino di coda d’Europa, dopo la Grecia e la Spagna. Nonostante le molte riforme e la flessibizzazione costante del mercato del lavoro da parte dei molti Governi che si sono succeduti negli anni, il nostro tasso di disoccupazione rimane considerevole con un gap che si allarga negli anni della crisi e un tasso di disoccupazione giovanile che assume sempre più contorni preoccupanti.«Si è pensato di cambiare il lavoro per decreto, invece che intervenire sugli investimenti pubblici e privati per creare occupazione, il risultato è solo un’estrema flessibilizzazione del mercato che spinge al sotto-inquadramento lavorativo. Ci troviamo in una situazione stagnante invece proprio a causa della mancanza di investimenti, sia pubblici che privati» ribadisce Giuseppe Masafra.

E se i dati sulla disoccupazione sono di per sé eclatanti, diventano addirittura drammatici quando si parla di disoccupazione giovanile, stime relative alle persone comprese tra i 15 e i 24 anni che non studiano e non lavorano. A fronte di una media UE del 15,2%, le ultime stime Eurostat indicano un tasso record per il nostro Paese del 32,6%,  inferiore unicamente a quello di Grecia (42,3%) e Spagna (34,1%). Un’evidenza che grava come nuvole nere sul futuro del nostro paese, a dispetto di “miracoli economici”, “#voltebuone” e tutte le schiarite governative che si sono succedute in questi anni.

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