Stefano Cucchi, il depistaggio dei Carabinieri è durato sei anni
25/10/2018 di Redazione
Emergono ancora particolari sul depistaggio dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto a 31 anni il 22 ottobre 2009 mentre si trovava in custodia cautelare. Come ricostruito dal quotidiano Repubblica qualche giorno fa, furono i vertici dell’Arma dei Carabinieri, la catena di comando di Roma, generale e ufficiali, a predisporre falsi che dovevano occultare la verità e nascondere il pestaggio del ragazzo, avvenuto nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. Ora emerge che il depistaggio è durato 6 anni, che l’inchiesta è stata sabotata fino al 2015.
Stefano Cucchi, l’ultimo depistaggio nel 2015
Come spiega oggi Carlo Bonini su Repubblica, mentre l’allora comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette invitata pubblicamente al «chi sa parli», alcuni uomini del Nucleo investigativo di Roma, su disposizione dell’allora Reparto operativo, omisero di raccogliere e consegnare alla Procura dei Roma una mail che dimostrava come, ad ottobre 2009, l’ordine di truccare le carte fosse arrivato per via gerarchica dai vertici del Comando provinciale. Il pm Giovanni Musarò, con la sua tenacia, avrebbe impiegato tre anni per trovare quel messaggio. Che sarebbe un’ulteriore prova di «un’attività di depistaggio ossessiva scientifica», come dice il magistrato.
La mail dimenticata
La mail è datata 27 ottobre. Stefano Cucchi era morto da 5 giorni. Erano già stati sbianchettati i registri di fotosegnalamento della caserma Casilina in modo che non si potesse risalire alla circostanza che Cucchi fosse stato portato lì nella notte tra il 15 e il 16 ottobre e lì pestato. Ma quei falsi dovevano essere sostenuti da altri falsi, per impedire alla Procura di scoprire che i due piantoni in servizio nella caserma di Tor Sapienza, dove Stefano aveva trascorso la notte, avevano davvero notato segni di violenze.
L’intercettazione in caserma: «Magari morisse, mortacci sua»
Nelle carte depositate ieri dal pm Musarò alla I Corte d’Assise del Tribunale di Roma c’è anche una conversazione registrata dalla centrale operativa con uno dei militari che aveva preso in carico Stefano che affermava: «Magari morisse, mortacci sua». A parlare era Vincenzo Nicolardi, uno degli imputati.
(Foto di copertina da archivio Ansa. Credit immagine: ANSA / MASSIMO PERCOSSI)