La grande dimissione, quanto è il nostro tempo produttivo?

I tratti comuni che tengono insieme il fenomeno delle grandi dimissioni e l'aumento del tempo di permanenza sui social network

23/06/2022 di Matteo Forte

Negli ultimi due anni abbiamo assistito al fenomeno chiamato “La grande dimissione”: più del 40% dei dipendenti nel biennio pandemico appena trascorso voleva lasciare (non cambiare) il proprio posto di lavoro. Perché?

Un’analisi predittiva, utile ai manager per contenere l’ondata, porta a ragioni pratiche ed estremamente utili alla produttività delle aziende. Sicuramente, tra le cause primarie vi sono state l’ambiente di lavoro, una “casa” dove i lavoratori passano gran parte della loro vita: per questo, si indica nella tossicità dei rapporti il motivo discriminante prevalente.

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La grande dimissione e i vari motivi che l’hanno scatenata

La cultura tossica è frutto di complessità di ogni natura, che vanno dai regimi di ingaggio del mercato del lavoro su licenziamento e assunzione, alle responsabilità aziendali di conflitto costante tra dipendenti, ruoli e meritocrazia.

I motivi secondari, ma prevalenti se messi insieme, rappresentano due tematiche centrali nel momento storico che abbiamo vissuto: riorganizzazione costante aziendale – frutto della velocità con cui le società si sono adattate durante il periodo pandemico – e l’alto tasso di innovazione, richiesto non solo dal mercato, ma dall’Europa e dal governo italiano. A tal proposito dobbiamo ricordare un dato importante: tra le società americane più famose agli occhi dell’opinione pubblica che hanno avuto una forte ondata di dimissioni possiamo annoverare SpaceX, Netflix, Tesla e Nvidia. Queste società sono caratterizzate da una forte competitività sul mercato, da una struttura in rapida evoluzione e da una richiesta di continua innovazione. Parallelamente, uno dei settori più colpiti, è quello dei commessi: stipendi bassi, contatto con il pubblico, precarietà e, ahimè, difficoltà a poter usare il nostro amato device mobile.

Lavoriamo davvero 8 ore nel posto in cui siamo?

Molte aziende italiane, specialmente le PMI, non hanno un efficiente controllo gestionale per mancanza di digitalizzazione nei processi di controllo (timbrature e verifica) e trasformano tale impossibilità con libertà di priorità e tempi nella gestione, autonoma, del tempo. C’è da ricordare che in materia giuslavorista (materia giuridica nel mercato del lavoro, ndr) non è semplice perimetrare, attraverso contratti o mansioni, tale principio: il datore di lavoro è responsabile, tranne che per i dirigenti, del tempo speso e dell’attività che svolge un dipendente nell’orario di lavoro.
La risposta a questa domanda è difficile, per i motivi di cui sopra, se lo sommiamo alle dinamiche di smart working condizionate da quest’ultimo periodo.

Si innesta qui il tema, diventato centrale nell’ultima campagna elettorale francese, del tempo di vita come vero valore per l’essere umano. Un incrocio dei dati delle proposte di Jean-Luc Mélenchon (NUPES, la nuova sinistra transalpina) in ambito lavorativo ha permesso di calcolare in almeno 20mila ore il tempo libero a disposizione del cittadino, in virtù delle riforme promesse. Queste ultime vanno dal rafforzamento della settimana lavorativa di 35 ore, del pensionamento a 60 anni e dell’introduzione di una sesta settimana di ferie. Tuttavia, nell’estensione del tempo di vita, non viene preso in considerazione quello che trascorriamo sulle piattaforme Big Tech: di fatto, ogni azione che l’utente realizza (tra social, piattaforme di gaming o di live streaming) rappresenta un tempo di lavoro gratuito che regala alle grandi multinazionali del digitale, dietro l’illusione della libertà di scelta, di una promessa di popolarità, di un palcoscenico, di un centro dell’attenzione. Il carico dello stress passa anche da qui: non rendersi conto che la produzione o la fruizione di contenuti sulle grandi piattaforme digitali rappresenta a tutti gli effetti un lavoro (che porta, tra le altre cose, alle estreme conseguenze la visione capitalistica), alimenta ulteriormente la necessità di un maggiore tempo di vita.

La produttività che non vediamo, non retribuita

Nel corso del 2021 abbiamo assistito ad un aumento degli utenti sui vari social network del 10-15%, ma il dato ancor più rilevante è che assistiamo ad un aumento medio annuo del 7% dal 2012. Oggi è facile scoprirlo ed è facile individuare quanto sia importante – forse più del nostro lavoro e del nostro reddito – se usiamo le funzioni del nostro smartphone relative al tempo di utilizzo. Sorpresi? Per avere un buon parametro di riferimento dobbiamo partire dal 2012, anno in cui, mediamente, passavamo circa un’ora del nostro tempo-vita sui social. Oggi è aumentato quasi del 69% arrivando a punte di 2 ore e 30 minuti. In queste due ore produciamo beni immateriali (foto, video, chat e dati) utili a chi, con l’applicazione, monetizza cifre impensabili.

La grande dimissione è un fenomeno strettamente connesso al tempo produttivo, alla cultura tossica in azienda e al grado di innovazione. Riconoscere il nostro tempo speso per una redditività personale è, oggi, un parametro di difficile comprensione che converge, sempre di più, in una fusione tra lavoro e attività sui nostri device.

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