«Fermata e con i telefoni controllati, mentre facevo mobile journalism in Ucraina»

Mariana Diaz Vasquez, giornalista inviata di Canal 13, ci racconta la sua esperienza a Leopoli

23/03/2022 di Gianmichele Laino

Quando si ascoltano le parole di chi, in Ucraina, c’è stato davvero per motivi di lavoro, si può scoprire che in guerra il nemico non sempre viene individuato come la persona con la divisa di un altro colore. A volte, viene scambiato per nemico anche chi la guerra la racconta, anche un giornalista. È quello che è successo a Mariana Diaz Vasquez, corrispondente dall’Europa per la televisione cilena Canal 13. Ci ha raccontato la sua storia, il suo viaggio nell’Ucraina dilaniata dall’invasione russa, le giornate vissute a Kiev sotto le bombe. Infine, il viaggio verso Leopoli, dove tutto sembrava finito. E invece proprio lì, a un passo dal confine e dal ritorno alla normalità, l’episodio che fa riflettere su come questa guerra sia stata raccontata e su come, all’atto pratico, sia così diversa, piena di sfumature e di una indefinibile zona grigia.

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Giornalisti e polizia ucraina, la testimonianza di Mariana Diaz Vasquez

Mariana Diaz Vasquez fa mobile journalism. È il racconto della notizia attraverso uno smartphone: collegamenti in diretta con la sua emittente, riprese, interviste, foto da condividere sui social network. Sono tutte azioni compiute nella maniera più rapida e più veloce: un clic sul tasto “rec”, l’inizio di una live e la narrazione parte, in un tentativo di bilanciare le parole con le immagini che arrivano da uno scenario di guerra. Stava facendo mobile journalism quando, l’ultima sera a Leopoli, voleva documentare le scene di vita quotidiana in un bunker, al suono della sirena che preannunciava un possibile attacco aereo.

«Nel bunker non hanno capito chi fossi e che stessi lavorando – dice davanti alle telecamere di Giornalettismo -. Per questo hanno chiamato la polizia ucraina. Gli agenti mi hanno portato con loro e mi hanno interrogato per ore. A volte avevo un fucile puntato alla testa». Per diverso tempo, Mariana Diaz Vasquez perde il contatto con il suo cellulare, con quello che era stato – ed è ancora – il suo principale strumento di lavoro. Sarà proprio quel cellulare a essere scandagliato a fondo, alla ricerca di materiale potenzialmente pericoloso, che potesse identificarla come spia. Per circa un’ora, gli agenti navigano, esplorano la sua galleria fotografica, cercano qualcosa.

«Al mio rientro in Italia – ci spiega – abbiamo utilizzato dei software per controllare che tipo di azioni fossero state eseguite sul mio telefono. È possibile che ci sia stato il tentativo di installare un’applicazione o che sia stata installata una applicazione e, successivamente, rimossa. Si vede ancora il setup. Inoltre, abbiamo visto che tipo di applicazioni sono state aperte sul mio smartphone durante il controllo della polizia: ovviamente le foto, i social media, WhatsApp. Persino Amazon Shopping: una cosa che mi è sembrata particolarmente strana». Al momento, tuttavia, abbiamo potuto verificare che sul cellulare della giornalista non sembrano attivi spyware o altri software destinati al controllo di conversazioni o di qualunque altro tipo di utilizzo dello smartphone.

L’importanza del mobile journalism nel coprire il conflitto in Ucraina

In quei momenti, Mariana Diaz Vasquez ha rischiato di perdere dati personali e il materiale frutto della sua corrispondenza dall’Ucraina. Non solo: tutti i servizi realizzati per l’emittente cilena sono stati controllati durante il suo interrogatorio, analizzati nella loro totalità, tradotti dallo spagnolo all’ucraino attraverso Google Translate. «Quasi pregavo che Google Translate non sbagliasse a restituire la traduzione e che, quindi, le mie parole fossero male interpretate. Non oso immaginare quello che sarebbe successo».

Per la corrispondente di Canal 13, in ogni caso, il mobile journalism rappresenta uno dei modi migliori per raccontare una guerra, in un momento storico come questo, dove la connessione a internet ti permette di comunicare in tempo reale e con il minor numero di filtri possibile quello che stai guardando: «La preoccupazione principale, prima della mia breve detenzione, era quella di non trovare una connessione a internet stabile. O che le chiamate con la redazione fossero interrotte. È capitato un paio di volte e ci hanno detto che qualcuno – non si sa se i russi o gli ucraini – interrompeva di proposito le conversazioni in una determinata area».

È questo lo sguardo inedito sul conflitto, quello di chi si deve muovere – attraverso mille equilibrismi – tra la propaganda che arriva da entrambe le parti: «Si dice – conclude Mariana Diaz Vasquez – che in una guerra la prima a morire è la verità. L’unico modo per evitare che ciò accada è che il giornalista racconti le storie, quello che riesce a vedere, quello che riesce a tirare fuori dalla viva voce delle persone. Solo così si può pensare di restituire al meglio le immagini di ciò che sta accadendo in questo conflitto».

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