La Cassazione conferma il licenziamento per chi sta su Facebook durante il turno di lavoro

01/02/2019 di Enzo Boldi

Un like, un commento o solo la curiosità di guardare cosa condividono i vostri ‘amici virtuali’ mentre siete sul posto di lavoro può costarvi il licenziamento. Così ha deciso – anzi, confermato – la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di una donna contro il proprio datore di lavoro. La segretaria part-time in uno studio medico, infatti, era stata pizzicata più volte su Facebook durante il proprio turno e, attraverso un lavoro di ricerca, è stato evidenziato come le sue comparsate sui social non fossero saltuarie.

In soli 18 mesi, la donna si era collegata ben 6mila volte a internet durante il proprio turno lavorativo e ben in 4500 occasione aveva fatto accesso a Facebook. Non per dare una rapida occhiata, ma per «durate talora significative». Lavorava part-time come segretaria in uno studio medico di Brescia, fino a quando il suo titolare non l’ha scoperta a perder tempo sui social invece che lavorare. Attraverso una ricostruzione della cronologia dei browser del pc che la donna utilizzava a lavoro, sono stati evidenziati numeri che hanno fatto scattare il licenziamento.

Su Facebook durante il turno di lavoro: licenziata

La donna sosteneva che il licenziamento fosse stato deciso in seguito alla richiesta fatta al datore di lavoro per usufruire della legge 104 e prendersi cura della madre malata. Con questa motivazione aveva presentato ricorso in Tribunale contro il titolare dello studio medico, ma il tutto venne rigettato nel 2016, con i giudici che sottolinearono la legittimità di quel licenziamento per una «violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa da parte della lavoratrice».

Il licenziamento per colpa della cronologia

Il datore di lavoro aveva portato in tribunale, a supporto delle sue ragioni, la cronologia del computer, per dimostrare i 6.000 accessi alla rete, di cui oltre 4.500 al social network. Il giudice l’ha accettata, nonostante la difesa della donna avesse lamentato l’insufficienza a dimostrare che fosse stata proprio lei ad accedere a Facebook. La Corte d’Appello, però, ha approfondito l’utilizzo di Facebook, certificando che per visitare i profili e altre funzioni non era necessario accedere con il proprio account. Per questo motivo per la legittimità del licenziamento è bastato confrontare gli orari in cui la donna bresciana era in turno con quelli degli accessi e della cronologia. La Cassazione, quindi, si è limitata a confermare quanto deciso dal Tribunale di Brescia nel 2016, senza entrare nel merito della possibile violazione della privacy.

(foto di copertina: Jan Woitas / dpa-Zentralbild / dpa)

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