Disinformare è parte del lavoro dei diplomatici russi

L'indagine di un ricercatore presso l'Oxford Internet Institute ha quantificato l'azione di disinformazione degli account diplomatici russi dall'inizio della guerra

19/04/2022 di Ilaria Roncone

I diplomatici del Cremlino fanno disinformazione ed è parte del loro lavoro. L’avevamo già visto con la questione dell’attacco all’ospedale di Mariupol e della disinformazione diplomatici russi su virus e laboratori ucraini – in particolar modo ad opera dell’ambasciata russa nel Regno Unito -. Ambasciate e consolati russi nel mondo, di fatti, sono occupate ad utilizzare i social media per far ricadere la colpa delle atrocità che accadono in Ucraina sull’Ucraina stessa per minare la coalizione internazionale a suo sostengo. L’azione delle varie aziende tech è stata quella di rimuovere determinati contenuti, applicare label agli account dei diplomatici russi o – ancora – rimuoverli dai risultati di ricerca. A prescindere da tutto, però, questi account rimangono attivi e continuano a fare disinformazione e propaganda in ogni lingua, tarate per gli specifici paesi in cui twittano.

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Disinformazione diplomatici russi: la ricerca dell’Oxford Internet Institute

Tra le ambasciate più attive nel fare disinformazione troviamo quelle del Regno Unito e del Messico, che sfornano propaganda filorussa a sostegno dell’invasione con regolarità. «Ogni settimana dall’inizio della guerra questi diplomatici hanno postato migliaia di volte, ottenendo più di un milione di impegni su Twitter a settimana» afferma Marcel Schliebs, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute che ha studiato oltre 300 account di ambasciate, consolati e gruppi diplomatici russi.

Il copione dell’ambasciata russa nel regno Unito per l’attacco alla stazione in cui sono morti oltre 50 civili è stato lo stesso adottato per l’attacco all’ospedale di Mariupol. Si tratta di contenuti che – secondo il monitoraggio – arrivano a raccogliere anche migliaia di retweet, commenti e like (compresi quelli di chi lo bolla come propaganda). Nicholas Cull, docente della University of Southern California che si occupa di diplomazia e propaganda, sostiene che «questo è ciò che significa vivere e lavorare per un regime totalitario: esso richiede una bolla mediatica, la censura a casa, la propria messaggistica sia per un pubblico interno che estero».

Non è certo una novità per la Russia se si considera che già nel 2014 i diplomatici utilizzavano i social per fare disinformazione sull’invasione della Crimea e sull’avvelenamento dei dissidenti russi. Dall’altro lato, il fatto di essere rappresentati di governi stranieri ha fornito loro la libertà di parlare – riporta AP, che ha condiviso i risultati dello studio -.

Propaganda pro Russia in aumento prima dell’invasione

Secondo lo studio c’è stato un aumento notevole della propaganda diplomatica pro Russia già nelle settimane che hanno preceduti l’invasione di febbraio. Gli account – stando alla ricerca di Schliebs – sono arrivati a twittare un totale di 2 mila contenuti a settimana immediatamente dopo l’invasione. La battuta d’arresto c’è stata dopo che Twitter ha annunciato, a inizio aprile, che avrebbe limitato oltre 300 account russi nei risultati di ricerca così da limitarne la portata. Nonostante questa azione, gli account in questione continuano a raccogliere circa mezzo milione tre like, retweet e commenti ogni settimana.

Dei trecento account Twitter e Facebook esaminato sono solo un terzo ad avere l’etichetta “organizzazione governativa russa” che le piattaforme hanno deciso di utilizzare per fornire un maggiore contesto all’utente rispetto a chi ha pubblicato quel contenuto. Schliebs non esita a paragonare la risposta delle big tech all’invasione della Russia paragonabile a quella all’attacco del 6 gennaio in Campidoglio, sottolineando come Trump sia stato bloccato su Twitter mentre i diplomatici russi no: «In nessun modo sto difendendo Trump ma non riesco a vedere coerenza in questa politica», ha affermato il ricercatore. Schliebs chiarisce anche il probabile perché, considerato che se la Russia e i suoi sostenitori si spostano su piattaforme molto meno trasparenti e difficilmente tracciabili come Telegram, c’è il rischio che i ricercatori non abbiano modo di vedere che cosa fanno (non a caso l’ambasciata russa nel Regno Unito già la scorsa settimana invitava i suoi follower a unirsi al gruppo Telegram così come ha fatto il ministero degli Affari Esteri della Russia).

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