Quando la certificazione delle news è stata fatta dagli altri, la destra ha urlato alla “censura”

Dal DSA, passando per la moderazione sulle fake news delle piattaforme social, fino ad arrivare agli strumenti e ai report di aziende private: Lega e Fratelli d'Italia hanno sempre mostrato qualche perplessità

08/01/2024 di Gianmichele Laino

Il caso più clamoroso è stato il dibattito politico che si è svolto intorno al Digital Services Act. Nei giorni della sua approvazione, quando era chiaro che il provvedimento discusso in sede europea sarebbe diventato di dominio pubblico nei diversi stati membri dell’Unione, soprattutto la Lega aveva alzato le barricate, sostenendo che il regolamento che imponeva alle piattaforme social di giocare un ruolo attivo nella moderazione dei contenuti per evitare agli utenti di imbattersi in fake news fosse una sorta di censura. Ma questo concetto era stato avanzato anche in passato, quando le aziende di Big Tech avevano deciso di darsi delle regole più rigide (soprattutto dopo quanto accaduto a Washington il 6 gennaio 2021, con l’assalto al Campidoglio in ottica pro-Trump) o quando alcune aziende private avevano provato a stabilire dei criteri per aiutare l’utente a orientarsi nella corretta informazione. Per non parlare delle forti critiche che arrivavano dall’opposizione quando era stato lanciato un comitato contro le fake news, successivamente alla disinformazione che aveva caratterizzato l’epidemia di coronavirus. La destra ha utilizzato spesso il termine censura, ogni volta che si è parlato di analisi e di monitoraggio dell’informazione esagerata, di quella palesemente falsa, di quella a portata di click. Oggi, invece, le cose sembrano essersi capovolte: Fratelli d’Italia, come abbiamo spiegato, ha proposto una riforma del Tusmar, nell’ottica di emettere una sorta di certificazione digitale contro le fake news. E, questa volta, non teme che il passaggio possa portare alla censura della libertà di espressione.

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Destra e censura, tutte le volte che si era lanciato questo allarme

La pensavano diversamente gli esponenti della Lega, nell’estate del 2023, quando il Digital Services Act era entrato in vigore. I due eurodeputati con funzioni di capodelegazione del Carroccio a Bruxelles avevano letteralmente tuonato contro quelle parti del DSA che chiedevano alle grandi piattaforme social di monitorare la correttezza delle informazioni che venivano diffuse, rafforzando le loro procedure di moderazione. «Qualcuno – spiegavano all’epoca i leghisti Campomenosi e Basso – sarà autorizzato a far cancellare il contenuto dei pensieri dei cittadini, magari con il pretesto della lotta alle ‘fake news’, magari con l’obiettivo di giungere alla campagna elettorale per le europee con l’anestetizzazione dei pensieri alternativi che saranno messi ai margini e contro cui la stessa Commissione Europea spenderà molti soldi pubblici per promuovere sé stessa e le idee portate avanti dai partiti che hanno sostenuto Ursula Von der Leyen e i suoi incompetenti commissari in questi anni». Il tutto culminato nella definizione di DSA come legge bavaglio dell’Unione Europea.

A onor del vero, Fratelli d’Italia ha mantenuto sempre una posizione piuttosto interlocutoria sul DSA, sostenendo – anche prima della sua definitiva approvazione – che questo regolamento potesse effettivamente dare una mano al settore dell’editoria. Tuttavia, anche nel partito di Giorgia Meloni, non sono mancate accuse di censura alle grandi aziende del digitale quando video che ne violavano le policies venivano sistematicamente rimossi da Facebook o da Instagram. Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro avevano attaccato l’azienda di Zuckerberg per la rimozione di un video di Atreju, nel 2017. Era stata la stessa Giorgia Meloni, nel 2021, a prendersela con Big Tech per le sue azioni di moderazione nei confronti dei contenuti pubblicati sui social network da Donald Trump e a proporre una sorta di antitesi tra il “patriottismo” come ideologia politica e la gestione delle piattaforme social, da Facebook a Instagram, passando per Twitter (che, all’epoca, non era ancora di proprietà di Elon Musk).

Critiche dalle opposizioni al governo Conte erano arrivate anche immediatamente dopo l’istituzione di una commissione anti fake news per monitorare lo stato dell’informazione (e della disinformazione) a ridosso della pandemia di coronavirus. E se pensiamo al forte legame che sussiste tra Elon Musk e l’ecosistema della destra italiana, immaginiamo anche quale possa essere stata la posizione politica quando il proprietario di X si è scagliato contro NewsGuard, che – da qualche anno – effettua un monitoraggio su siti di informazione di tutto il mondo per verificarne l’attendibilità.

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