L’Italia è il Paese in cui sono stati condivisi più post che mettono in dubbio il massacro di Bucha
L'analisi, a livello globale, è stata condotta dall'ISD (Institute for Strategic Dialogue) e ha evidenziato il grande "successo" dei post pubblicati da Toni Capuozzo su Facebook
21/04/2022 di Enzo Boldi
Sulle immagini arrivate all’inizio di aprile da Bucha, il sobborgo alle porte settentrionali di Kyiv, i social e gli utenti che li frequentano non hanno dato l’immagine migliore di loro. In tantissimi, come confermato da un sondaggio Demos, hanno messo in dubbio la veridicità di quei civili morti e di quei corpi senza vita lasciati in strada. Molti hanno negato il tutto, alimentando bufale come quella dei cadaveri che si “muoverebbero” al passaggio dei mezzi militari ucraini. Ma il negazionismo è solo un aspetto di questa analisi social. Perché uno studio condotto dall’ISD (Institute for Strategic Dialogue) ha evidenziato come l’Italia sia il Paese dove sia stata data la maggior grancassa mediatica ai post “dubbiosi”, come quelli del giornalista Toni Capuozzo.
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Secondo lo studio, un’analisi che si basa su CrowdTangle che dà il polso della “viralità” social (in termine di social engagement, quindi like, commenti, interazioni e condivisioni) in molti Paesi è stato dato ampio spazio alla narrazione filo-russa del massacro di Bucha. Ed è stato dedicato un capitolo anche al caso Italia, con un diagramma che mostra come il nostro Paese sia in testa a questo “primato”.
E l’attenzione si è rivolta, in modo particolare, sui contenuti condivisi dal giornalista Toni Capuozzo nei giorni successivi alle immagini dei cadaveri per le strade di Bucha. Il nome del cronista – storico inviato di guerra di Mediaset – è entrato all’interno di questa analisi-studio per un motivo: i suoi post di domande dubbiose su quel che è accaduto sono stati quelli maggiormente citati e protagonisti nella prima settimana di aprile sul Facebook italiano.
Toni Capuozzo e i post dubbiosi di Bucha tra i più condivisi
In particolare si tratta di due post pubblicati su Facebook il 5 aprile e che hanno trovato spazio anche sul blog di Nicola Porro (che spesso lo ospita nella sua trasmissione televisiva su Rete4).
In particolare, il primo post, recita così:
«Il mestiere del giornalista è farsi domande, anche quelle scomode. E allora mi ha sorpreso una sequenza di date:
– il 30 marzo le truppe di Putin abbandonano Bucha;
– il 31 marzo il sindaco, davanti al municipio, rilascia una dichiarazione orgogliosa, sul giorno storico della liberazione. Non parla di vittime per le strade.
-il 31 marzo Maxar Technologies pubblica le foto satellitari che rivelano l’esistenza di fosse comuni attorno alla chiesa. E’ una scoperta che poteva essere fatta a terra: è la fossa che pietosamente gli abitanti del posto hanno iniziato a scavare il 10 marzo per seppellirvi i propri morti nella battaglia – siamo poco lontani dall’aeroporto di Hostomel- in cui nessuno avrebbe fatto distinzioni tra civili e militari.
Il 1 aprile va in onda a Ukraine TV24 l’intervista al sindaco. Non è accompagnata da alcun commento su morti per strada.
Il 1 aprile un neonazi che si fa chiamare Botsman posta su Telegram immagini di Bucha. Dice solo di aver trovato un parlamentare, in città, non parla di morti. Ma lo si sente rispondere a una domanda: “Che facciamo con chi non ha il bracciale blu’?” “Sparate”, risponde.
Il 2 aprile la Polizia ucraina gira un lungo filmato sul pattugliamento delle strade di Bucha (che non è enorme:28mila abitanti). Si vede un solo morto, un militare russo, ai bordi della strada. Nel filmato, lungo 8 minuti ci sono abitanti che escono dalle case, e passanti che si fermano a parlare con la polizia. Lieti di essere stati liberati, ma nessuno parla di morti per strada. La cosa peggiore è quando uno racconta di donne costrette a scendere in una cantina, e uomini prelevati per essere interrogati.
Il 3 aprile il neonazi su Telegram incomincia a postare le foto dei morti. A tre giorni pieni dalla Liberazione.
Il 4 aprile, ieri, il New York Times pubblica una foto satellitare che riprende i morti per strada, spiegando che è stata scattata il 19 marzo (quindi i corpi sarebbero per strada da quasi due settimane, sembrano le armi chimiche di Saddam).
Va da sé che onestà e indipendenza (che poi uno scambi l’indipendenza come dipendenza da Mosca mi fa solo ridere amaramente) impongono domande. Com’è che gli abitanti di Bucha che, sotto la dura occupazione russa, seppellivano i propri morti, questi invece, pur liberi, li lasciano sulle strade ? Com’è che attorno ai morti non c’è quasi mai del sangue ? Se una vittima viene sparata alla tempia, è una pozza, finchè il cuore batte. Se gli spari che è già morto, niente sangue. Com’è che in una cittadina piccola e in guerra, dove nessuno presumibilmente si allontana da casa, nessuno ha un gesto di pietà, per tre giorni, neanche uno straccio a coprire l’oscenità della morte ? Erano morti nostri o altrui ? Se uno vuole credere, se cioè è questione di fede, anche l’osservazione che i morti, per bassa che sia la temperatura non si conservano così, è inutile. Morti pronti per il camera car che è una gimkana tra i corpi».
Entrambi i post hanno ricevuto decine di migliaia di reaction, decine di migliaia di commenti e decine di migliaia di condivisioni. I dubbi sul massacro di Bucha condivisi più volte da Toni Capuzzo partivano da un presupposto sbagliato, quello del primo silenzio del sindaco della cittadina sulle vittime uccise in strada dai russi. Ma Associated Press, il 7 marzo (quindi diverse settimane prima della liberazione della città) aveva riportato il racconto della tragedia civile in corso fatto proprio da Anatol Fedoruk, primo cittadino di Bucha: «Non possiamo nemmeno raccogliere i corpi perché i bombardamenti delle armi pesanti non si fermano né giorno né notte. I cani stanno facendo a pezzi i corpi per le strade della città. È un incubo». Era il 7 marzo, quasi un mese prima rispetto ai post “dubbiosi” di Toni Capuozzo condivisi su larga scala dal pubblico Facebook italiano, alimentando – di riflesso – una versione negazionista e filo-russa (anche andando oltre alla probabile buona fede del giornalista che voleva “solo farsi domande”).