In Sudafrica i giudici stanno cercando di risolvere il post-apartheid

13/04/2018 di Redazione

E se l’annoso problema dell’apartheid in Sudafrica non fosse mai svanito? A seguire alcuni casi di cronaca, sembrerebbe che il razzismo sia intrinseco nelle trame sociali del Paese.

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Il primo indizio ha riguardato un’ex agente immobiliare, Vicki Momberg, che recentemente è stata condannata a tre anni di prigione per avere abusato verbalmente di alcuni vigili neri e degli operatori del centralino che la stavano aiutando dopo un incidente stradale.

Il secondo interessa la riforma agraria, dove i populisti neri stanno adottando una retorica sempre più dura nei confronti dei contadini bianchi nel rivendicare la terra “che gli è stata tolta con la forza”. La destra bianca denuncia di essere vittima di assedi e afferma di temere per la vita della minoranza che rappresenta.

In questo strano meccanismo di azioni e reazioni, il ruolo della magistratura ha aperto uno squarcio: nel Paese ci si chiede se sia meglio evitare certi torpiloqui per non rischiare di finire in carcere oppure rivendicare il proprio diritto a esprimere sempre e comunque la propria opinione.

Il problema non è giustificare o meno il diritto al razzismo, che è sempre sbagliato. La vera criticità è: possono i giudici cambiare questo clima di intolleranza diffusa? La discussione è aperta, come testimonia il sito d’informazione Quartz:

La legge ha lo scopo di consolidare ciò che la società pensa sia giusto. Se prescrive che il razzismo, il sessismo o l’omofobia sono sbagliati, c’è probabilmente una possibilità che le persone arriveranno ad accettarlo nelle vere democrazie (specialmente attraverso le generazioni). Ma la legge può anche essere utilizzata per effettuare cambiamenti strutturali.

Un altro problema riguarda il diritto a esistere senza etichette. Dopo l’apartheid è stato introdotto l’equity employment, una legislazione atta a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di persone nere e donne. Tuttavia, nel 2018 i diretti interessati hanno cominciato a esprimere dubbi legittimi sulla loro identificazione sociale e culturale e vorrebbero essere riconosciuti come lavoratori senza etichette.

In attesa di trovare una risposta anche a questo, la domanda finale non può che essere una: come si fa a cambiare rotta se la popolazione non ha mai fatto i conti con il proprio passato?

(Foto credits: Ansa)

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