Stefano Cucchi, l’accusa del pm: «Anche il ministro Alfano fu indotto a dire il falso»

Si apre subito con un passaggio chiave l’udienza del processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Il pubblico ministero Giovanni Musarò, infatti, ha tirato in ballo l’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano che, all’epoca dei fatti, rivestiva quel ruolo nel governo guidato da Silvio Berlusconi. La catena dei depistaggi sul caso – nel quale sono imputati cinque carabinieri -, stando alle parole del pm, sarebbe arrivata fino al vertice della piramide, il ministro della Giustizia Alfano che – nei giorni immediatamente successivi alla morte di Stefano Cucchi – fu chiamato a rispondere a un’interrogazione sul tema in Aula.

Stefano Cucchi e le informazioni false date inconsapevolmente dal ministro Alfano

Tutto è partito da un lancio d’agenzia dell’Ansa, datato 26 ottobre 2009, in cui si riportava che Stefano Cucchi, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto. Il giovane era morto quattro giorni prima, in circostanze che subito sembrarono poco chiare. In seguito a questo lancio d’agenzia – dice il pm – si scatenò il putiferio, arrivando a coinvolgere direttamente il ministro Alfano.

«Dal Comando generale dell’Arma – afferma il pm Musarò – partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera». E proprio in questo question time, stando alle parole del magistrato, l’ex esponente del Popolo delle Libertà fu costretto, inconsapevolmente, a dire il falso: «Il ministro, per paradosso – dice Musarò -, si limitò a riferire il falso su atti falsi».

Un altro dettaglio molto inquietante è stato fornito dai magistrati: stando a quanto riportato nell’udienza di questa mattina, infatti, i carabinieri attribuirono le responsabilità del decesso di Stefano Cucchi ai medici, arrivando alle stesse conclusioni che vennero inserite nei verbali dei medici legali nominati dalla procura ben sei mesi dopo.

FOTO: ANSA/ALESSANDRO DI MEO/CRI

Share this article