Una delle reazioni più evidenti al lungo e complesso periodo di lockdown che possiamo avvertire nel nostro quotidiano è un naturale senso di mancato appagamento. Una mancanza che in molti casi è diventata una forza contraria alla nostra identità, che ci ha cambiato e ci ha fatto vivere momenti altalenanti di paura, smarrimento, gioia edulcorata e improvvisi (e forse irrazionali) cambiamenti.
Per molto tempo si è provato ad immaginare cosa sarebbe successo nella nostra psicologia e molti studi sono stati fatti; sul sonno, ad esempio o sulla difficile percezione del tempo, utili a diagnosticare effetti indesiderati nel breve termine. Ma perché allora neghiamo l’evidenza e proviamo a ritagliarci momenti a tutti i costi?
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Credo sia arrivato il momento di definire che ciò che stiamo affrontando ora sia il primo vero effetto, tardivo e a medio/lungo termine, di un lockdown: abbiamo tutti voglia di “avere” ciò che ci è stato tolto.
Cosa ci è stato tolto?
– Il confronto, la possibilità semplice di parlare con le altre persone, godersi il rapporto empatico e condividere argomenti, sensazioni, umori;
– L’ascolto, nel normale dare/avere di una conversazione;
– L’autostima, lo specchio di ciò che ci dà quella sicurezza di affrontare le sfide.
Senza confronto, ascolto e autostima, l’essere umano su cui avevamo puntato per vivere, sopravvivere e sperare è diventato solo. Solo con la propria coscienza, con la propria espressività, con le sue paure e con la sua incoscienza.
Poi si esce lentamente dal lockdown ed ecco i primi segnali di socialità, sempre contingentata. E succede quello che poteva essere, col senno di poi, soltanto ovvio: si inizia a pretendere.
Si inizia a pretendere, quasi fosse un diritto, che tutti siano pronti a “dare”. Dare probabilmente di più, dare, dare: voglio essere ascoltato, mi voglio riprendere ciò che mi è stato tolto, è un mio diritto.
Immaginiamo il principio del diritto come quando attraversiamo le strisce: la macchina si deve fermare, io ho diritto di passare e pretendo che la macchina si fermi. Per un ragazzo o una ragazza di 16 anni, è legittima la pretesa di potersi divertire come tutte le generazioni:
#GaiaBianchiisOverParty:
Per le storie pubblicate su Instagram dalla tiktoker, nota anche per aver violato la quarantena ad aprilepic.twitter.com/YIEbVfJ9wi— Perché è in tendenza? (@perchetendenza) August 17, 2020
Non ce ne siamo ancora accorti completamente come questo atteggiamento sia ormai parte di noi ma io lo vedo nei bar, nelle file agli ambulatori: nessuno sta peggio di noi, nessuno ha più diritto di noi nel pretendere ciò che ci è stato tolto.
Ma in un mondo dove tutti vogliono “avere”, a chi spetta il dare? A nessuno, ovviamente, se non a coloro che per motivi fortuiti o per equilibri interiori fortificati hanno trascorso diversamente il periodo di chiusura. Il tempo passa e i casi aumentano, il lockdown è un incubo economico ma mi voglio permettere di segnalare quanto invece io sia più preoccupato della nostra struttura psicologico/sociale/umana. L’inizio di un periodo, già spinto dai nuovi media, di sepoltura umanistica è all’orizzonte e ciò che potremmo perdere è molto di più di un 10% di Pil globale.
Stiamo perdendo l’amore: l’amore parte da ciò che siamo disposti a dare. Non può essere diversamente, amare un lavoro, un compagno, un figlio o un ideale non può che passare da ciò che siamo in grado di mettere nel piatto ben prima di ricevere qualcosa in cambio.
E allora ci riempiamo di cose, di momenti, privati e non, sempre insoddisfatti – in fondo – perché solo esercizio tecnico. Facciamo anche cose stupide, come andare in discoteca a 60 anni, incentivare la movida o andare in luoghi che mai avremmo frequentato prima, rischiando di contrarre la malattia stessa, fregandocene dei nostri cari, ritagliandoci un posto nell’eterna pretesa a un diritto che non potrà mai essere soddisfatto. Almeno per come ce lo ricordavamo, prima.