La tragica fine di una “figlia” amata da tutti
22/05/2009 di Igor Jan Occelli
Un evento drammatico accaduto in un quartiere di Bologna, passato alla storia come “roccaforte operaia” della città, un “cuore rosso” macchiato, ahimè, dallo stesso colore che ha il sangue versato dalla vittima di questa efferata vicenda.
SCORCI DI VITA SURREALE – La realtà della vita quotidiana, fatta di alzatacce alle quattro di mattina per portare a casa il minimo indispensabile, di vetri rotti alle facciate di negozi che forse non apriranno più, di muri scrostati e pieni di crepe, di facce ruvide che mostrano ad una ad una le pieghe del tempo, questa realtà, praticamente assente nelle visioni mediatiche quotidiane, la trovi qui. In questo quartiere che una volta era l’enclave della classe operaia di quella Bologna rossa di cui oggi, dopo tanti e troppi anni di lotte, si ricorda solo il nome, quasi fosse un mito. Ma qui, alla Bolognina, i miti hanno un nome, un viso, un lavoro. Hanno il volto del giornalaio dietro l’angolo a cui sono stati tolti gli ultimi attimi di gioia. Hanno le mani ruvide piene di calli dei tanti ambulanti, oramai indistinguibili dagli autoctoni perché le identiche storie, le stesse ingiustizie, gli stessi soprusi li legano in maniera indissolubile. Hanno le scarpe rotte di viaggi intrapresi nel deserto decenni fa, quando l’Italia sembrava un paradiso in terra e invece null’altro era se non un miraggio. Hanno gli occhi spenti di un quartiere popolare che accoglie in sé tutti, chiunque, ladri e onesti, spacciatori e operai, perché nella povertà non c’è differenza, ma solo dignità e voglia di riscatto. Oggi questi miti, con le loro storie, le loro facce e le loro scarpe, osservano un silenzio irreale per questo quartiere. Le persone passano, guardano quei calici di vetro, quei bicchieri, quei vasi fuori da ogni negozio, con lo stesso identico volto affisso sopra, e lasciano un’offerta. Servirà a pagare il funerale di una di loro: se la famiglia vera non ha le disponibilità economiche per farlo, ci penserà l’altra, il quartiere. A ogni offerta la tristezza negli occhi del giornalaio, del barista, dell’ambulante, dell’operaio, si fa più evidente, più desolante. Sara Jay non c’è più. Non andrà più da nessuno di loro, non regalerà più a nessuno i suoi sorrisi di bambina.
IMPROVVISA SPARIZIONE – E pensare che solo quattro giorni fa, giovedì mattina, era una giornata identica a tante altre. Il sole iniziava a scaldare il quartiere, era il 19 aprile di questo Anno Domini 2001, e piano piano le persone iniziavano ad allegerirsi. Nulla poteva far presagire quello che sarebbe avvenuto nel primo pomeriggio, quando i nonni della piccola Sara Jay, la mamma, gli zii, arrivarono disperati a chiedere a tutti se qualcuno l’aveva vista. In meno di un secondo l’intero quartiere era mobilitato, nessuno pensava ad altro. Il giorno dopo il volto di Sara era appeso in ogni bar, edicola, tabaccheria, negozio. In ogni luogo dove ci fosse un minimo di posto, i suoi occhi sorridenti erano lì per ricordare che una bambina di nove anni, una figlia del quartiere, era sparita. In giro, le prime voci, le prime ipotesi, iniziavano a prendere corpo, a prendere la forma di un sospetto che chiunque rifuggiva come fosse peste, ma che invece diventava sempre più consistente: una nuvola nera che oscurava questo caldo sole di aprile. L’idea che uno di loro, uno della Bolognina, non importa se arrivato lì da poco, potesse essersi macchiato di un crimine così orrendo, metteva i brividi a tutti. L’immagine che poi questo fosse anche uno di famiglia, quella vera, scuoteva le coscienze dei più duri. Eppure tutti i fatti sembravano voler raccontare la stessa storia. «O l’ha stuprata e ammazzata, oppure l’ ha venduta. Questo è il mio pensiero. Comunque la colpa è sua. L’ aveva lui, la bambina». Le parole di Carmelo, lo zio di Sara Jay, il fratello del padre, Italo Cusmà Piccione, due del quartiere, risuonavano nella testa di tutti. Il racconto del padre fa diventare la nuvola così nera che sembra possa vomitar pece da un momento all’altro. «Ha insistito tanto per portarla via. Tre o quattro volte, giovedì, è venuto in casa, per convincerla. Dai, vieni ad aiutarmi che ti do i soldi, e tutte queste moine. Lei non voleva, poi ha accettato». Tutto punta in quella direzione, verso lui, Milan, il compagno di Jenny, la sorella di Sara. Un unico barlume di speranza rischiara la Bolognina stasera: che Sara possa essere stata venduta, che sia ancora viva. Italo spera sia così. «Io credo che l’ abbia venduta, la bambina. Forse per avere dei soldi, forse come pegno a chi aveva dei crediti. Io dico a chi ha la bambina: siamo poveri, ma faremo di tutto per trovare del denaro. Ditemi dov’è, a prenderla verrò io da solo».
TRISTE EPILOGO – Lui intanto, Milan Nicolic, di origini serbe, è già sotto interrogatorio da diverse ore. Racconta di aver portato a casa sua Sara e poi di averla lasciata dalle sue amichette cinesi, ma lì la bambina non è mai arrivata. Anche Jenny è lì, il suo racconto è fondamentale per capire, per squarciare un velo in questa nuvola che più il tempo passa e più diventa scura. Serve far combaciare i tasselli, metterli uno accanto in maniera sicura. È un lavoro certosino, che richiede grandi abilità. Ma il colonnello Luigi Finelli, ora a capo delle indagini è uno che queste cose le sa fare. E bene. I graffi sul volto Milan dice che glieli ha fatti il figlio di diciotto mesi e allora il colonnello chiede la conferma alla madre, Jenny: no, non è andata così, questo non è successo. Voci, conferme, frasi dette da Milan a una sua amica, fanno tutto il resto. L’avanzare del colonnello è deciso. La porta della stanza si apre veloce e Milan si ritrova di fronte l’immagine di un uomo troppo grande per lui, un re di fronte al suo servo. «Da qui tu non esci più, mettitelo bene in testa. E forse è meglio perché fuori rischi», dice il colonnello. E Milan allora deve capire. Iniziare a comprendere che fuori, nel quartiere, la sua colpevolezza ormai è data per certa e un solo passo fuori dalla caserma equivale a mettere un piede nella fossa. Perché alla Bolognina sono tutti fratelli, con le stesse storie e le stesse disgrazie alle spalle, ma certe cose non vengono perdonate. Così la sua voce trova la forza di uscire. «L’ ho uccisa, ma non l’ ho violentata. È stata lei a farmi delle avances, poi ha battuto la testa, io non ci ho visto più e l’ ho strangolata con una corda che avevo sotto il letto». Il quartiere adesso bolle di rabbia. C’è disperazione e frustrazione negli occhi dei suoi abitanti. C’è la consapevolezza che nessuna pena sarà mai sufficiente a punire quell’uomo per ciò che ha fatto. Che nessun castigo potrà essere equo. «C’ è tanta disumanità in un uomo che uccide una bambina», dirà Don Tonino dal pulpito della sua chiesa, «ma c’ è ben più umanità nelle famiglie che hanno accolto tante volte in casa loro quella bambina». Le sue parole risuoneranno fuori della cattedrale, abbracciando tutti quei volti, quelle mani, quelle scarpe, e un piccolo raggio di sole aprirà quella nuvola.