«I social non sono né buoni né cattivi: sono uno strumento. Sta a te usarli nel modo giusto»
Di giornalismo digitale e new media. Intervista a Lorenzo Tosa
24/06/2023 di Hilde Merini

La data d’inizio del giornalismo digitale viene generalmente considerata il 1993 quando, su uno dei primi browser web, “Mosaic”, il Dipartimento di Giornalismo dell’Università della Florida aprì il suo primo sito internet. Aggiornato occasionalmente e con difficoltà, spesso di notte o nel weekend, era un’operazione d’avanguardia: un sito essenziale, statico, con una sola foto. Un anno dopo apre l’“Electronic Telegraph”, versione elettronica del Daily Telegraph inglese. Il resto è storia: siti internet, web radio, video on demand, social network. Dimenticate le “notizie elettroniche” freddissime, lette su un pc con Windows 98 e un modem rumoroso. Le notizie ora sono calde, veloci, ovunque: in metro, tra una fermata e l’altra, su Instagram grazie al nostro smartphone. Lorenzo Tosa nasce a Genova nel 1983 e diventa giornalista professionista nel 2011. All’attivo ha libri, un intenso lavoro sui quotidiani nazionali, la direzione di NextQuotidiano e una forte presenza sui social network. Più di un decennio di professione dove ha attraversato diversi canali di comunicazione.
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L’intervista a Lorenzo Tosa e il suo rapporto con i nuovi media
«Sono nato in quella generazione in bilico tra la vecchia redazione del quotidiano in cui si faceva il giornale in modo artigianale e la stagione del web e dei social». Ci racconta Lorenzo Tosa, parlando della sua esperienza con il Digital Jouornalism: «Oggi il confine tra la prima e i secondi è sempre più labile, ibridato per necessità e anche per costi. Come spesso, mi capita, mi sento abbastanza nel mezzo, né di qua né di là, consapevole che, alla fine, la materia grezza, l’ingrediente base di ogni buon giornalismo resta sempre la notizia. La notizia e la buona scrittura, e questo non cambierà neppure con le nuove intelligenze artificiali alle porte, anche se la concorrenza già si sente e sarà, con ogni probabilità, il tema del prossimo decennio».
Difficile oggi come oggi pensare ad un Lorenzo Tosa lontano da internet, senza il suo profilo e la sua attività online. L’idea di sbarcare sui social nasce però solo qualche anno fa, all’improvviso, a causa di una grande delusione, come ci racconta: «Nasce un po’ per caso e un po’ per necessità quando mi sono licenziato da un giorno all’altro dall’ufficio stampa di un partito politico di cui non condividevo più neanche le virgole».
Entra in scena con un lungo post, in breve diventato virale: «Ne è seguito un secondo e poi un terzo e un quarto, convincendomi non solo che ci fosse uno spazio nuovo attraverso cui raccontare la politica in modo diverso, ma anche centinaia, migliaia di lettori che sentivano la necessità di una voce critica rispetto allo scempio a cui stavano assistendo impotenti».
La forza di quei post e di quella scrittura Tosa se la spiega in maniera semplice, come spesso succedono queste cose: la persona giusta, nel posto giusto, al momento giusto. «Nel mio piccolo, ho riempito un vuoto che c’era, finché non è diventato un esercizio di giornalismo e attivismo digitale quotidiano e poi la creazione di una comunità di persone e ideali che mi ha fatto sentire meno solo. Non li ringrazierò mai abbastanza».
Sull’influenza che ha sui cittadini pagine di informazione politica che svolgono un lavoro simile al suo commenta dicendo che per fortuna o purtroppo l’ascendente è grande. «In uno scenario in cui tante persone non si informano più sui media tradizionali, e cercano di tenersi aggiornati sui social, compito di chi, come me, fa divulgazione politica su piattaforme come Facebook e Instagram è quello di provare a fornire una sintesi di quello che accade con un linguaggio semplice e accessibile ma con l’approfondimento necessario su temi anche complessi e spesso molto divisivi», aggiunge Tosa. Un gioco di bilanciamenti non sempre facile.
La presenza sui social come giornalista non è semplice da gestire, e come tutte le cose ci sono dei lati vantaggiosi ma molti pericoli nascosti. Per Lorenzo Tosa i pro sono, secondo la sua esperienza: «Arrivare direttamente, senza filtri, a milioni di persone che ti danno un feedback in tempo reale, creare un dibattito e condividere opinioni con persone che difficilmente riuscirei mai a raggiungere con un articolo di giornale». Di contro invece c’è l’aria tossica che si respira sui social: «Lì in mezzo, il tasso di volgarità e analfabetismo funzionale (a volte neanche funzionale) è davvero fuori scala».
Nonostante tutto questo, la community dei giornalisti secondo Lorenzo Tosa non è particolarmente litigiosa, anzi terreno fertile per nutrienti collaborazioni. «In questi anni si sono create numerose collaborazioni, a volte sfociate in vere e proprie amicizie – ci racconta -. Penso, tra gli altri, a Leonardo Cecchi, mio grande amico (anche se, tecnicamente, non è un giornalista), Iacopo Melio, Saverio Tommasi, Fabrizio Delprete, tutte persone con cui condivido battaglie e ideali, e spesso anche hater. Ma questo fa parte del gioco».
Gli hater, gli “odiatori di professione”, sono un dramma giornaliero per i content creator. Creature ormai classiche della fauna dei social network, persone passate dalle panchine del bar Sport alla sezione commenti di Facebook nel giro di meno di venti anni. Contribuiscono ad alimentare quella volgarità di cui Lorenzo Tosa parlava, rendendo il dialogo con i lettori ogni giorno uno step più difficile per i giornalisti influencer impegnati a contenere odio e fake news sui loro profili (o sui profili delle testate) mentre cercano di veicolare notizie complesse.
L’equilibrio della parola influencer per Lorenzo Tosa
Lorenzo Tosa però non si pensa influencer: «Non è un termine che amo particolarmente – ammette -. Influencer è, nel linguaggio del marketing, una figura che promuove e pubblicizza brand e prodotti a pagamento rivolgendosi a una vasta platea di persone o, più esattamente, follower. Ed è qualcosa di lontanissimo da quello che faccio e dal modo in cui “pratico” i social, anche perché, come giornalista professionista, la deontologia mi impedisce (giustamente) di farmi pagare da aziende pubbliche o private per pubblicizzare prodotti». Nonostante questa giustissima spiegazione, soprattutto sull’importanza della deontologia per un giornalista professionista, più avanti nella nostra chiacchierata prova a guardare il termine da un punto di vista diverso. «Se intendiamo in modo più ampio il termine influencer come qualcuno in grado di “influenzare” un ampio numero di persone e, quindi, il dibattito pubblico, allora sì, nel mio piccolo, posso essere definito influencer. Ma, prima di tutto, per formazione, passione e metodo, sono e resterò spero a lungo un giornalista».
È indubbio però che la sua presenza social abbia inciso, in una certa misura, sulla sua carriera a 360°. Per Tosa, questa “influenza” è avvenuta più indirettamente che direttamente. Nello specifico, ci spiega come la sua attività non porti mai a un reale guadagno in termini di denaro: «Non prendo un euro dai miei post, sgombriamo subito il campo da equivoci». Ma “indirettamente” il condizionamento arriva in altri termini: «Mentirei se negassi che negli ultimi anni mi ha spalancato diverse porte che difficilmente si sarebbero aperte e permesso di conoscere alcune tra le persone che più stimo in Italia, con cui sono nati progetti, giornali, campagne, iniziative. I social non sono né buoni né cattivi: sono uno strumento. Sta a te usarli nel modo giusto».