Ti racconto come si vive in carcere con l’Hiv
28/06/2013 di Chiara Lalli
In carcere una persona su tre è malata. Spesso senza saperlo. Il 28% dei detenuti è positivo all’epatite C, il 7% all’epatite B, il 3,5% all’Hiv, il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% è positivo alla sifilide E se questi numeri sono già spaventosi, va aggiunta la scarsa consapevolezza: un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Questi sono i numeri raccolti da uno studio condotto dal NPS, Network Persone Sieropositive, e dalla SIMIT, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali, su un campione di circa il 60% dei detenuti (la mappa dei detenuti è qui). Lo studio è stato presentato il mese passato nel corso del Congresso nazionale ICAR, Italian conference on Aids and retrovirus.
INFERMITÀ E CARCERE – Essendo il concetto di salute difficile da definire, anche la valutazione della sua assenza non può che essere disomogeneo. La compatibilità tra una certa condizione di salute e la detenzione è dunque accertabile faticosamente, e sembra essere analizzabile più caso per caso che tramite una regola assoluta e universale (si veda “Incompatibilità per condizioni di salute fisica” oppure “AIDS e carcere nell’evoluzione legislativa” ). Ciò che è certo è che la salute in carcere sia un problema internazionale (vedi la mappa ) e che in Italia sia particolarmente drammatico, visti i numeri dei detenuti e le condizioni carcerarie spesso ripugnanti.
HIV E CARCERE – L’Hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni. Se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Giuseppe (Pino) Zumbo, da anni educatore carcerario stimato per il suo lavoro e la sua storia personale, conosce bene il mondo dell’Hiv e del carcere. Nell’intervento al seminario europeo IN&OUT si presenta così: “Sono malato Hiv da 25 anni e mi sono infettato nel carcere di Marassi (GE) per via endovenosa all’inizio degli anni 80 usando durante le mie detenzioni una pseudo-siringa artigianale, come altre centinaia di detenuti. Conosco sulla mia pelle dinamiche e sentimenti di un detenuto Hiv”. Chiedo a Pino Zumbo di raccontarmi com’è, oggi, la condizione di una persona con l’Hiv e detenuta in un carcere.
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I FARMACI NON CI SONO – Il primo guaio è che i farmaci in carcere non sono disponibili in modo adeguato. “È tutto farraginoso – mi racconta Zumbo – e alcune persone devono cambiare la terapia perché nel carcere sono stati sballati, cioè trasferiti. Cambi carcere e nella maggior parte dei casi ti cambiano la terapia. Non ha alcun senso cambiare terapia per ragioni non mediche: sei abituato a dei farmaci, te li sostituiscono. Spesso perché il carcere X ha una convenzione con il farmaco X. Puoi fare una domanda per riavere il tuo, ma di fatto non serve a niente”. In fondo sarebbe semplice, basterebbe un protocollo, uno sforzo organizzativo per garantire la continuità farmacologia. “Tutti i carceri dovrebbero avere tutti i farmaci. Ma ci sono molti interessi, per cui il medico del carcere o il responsabile sanitario userà un determinato farmaco perché magari ne avrà dei vantaggi. Indipendentemente dai pazienti. Seguono logiche che non hanno nulla a che fare con la salute. Sono logiche che hanno più a che fare con i soldi. Palanche, si dice a Genova”.
NON ADERENZA – L’aderenza alla terapia è cruciale per le condizioni di salute: devi assumere i farmaci regolarmente e in modo corretto. È importante in qualsiasi circostanza, ma lo è particolarmente con gli antiretrovirali: interrompere la continuità di assunzione significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. “La non aderenza è la morte – mi dice Zumbo – e a parte carceri di élite, come Opera, altrove rischia di essere la norma: penso a Poggioreale, o a altri carceri borbonici, mal attrezzati. Favignana è sotto al livello del mare. C’è una umidità insopportabile anche se stai bene, figuriamoci se soffri di qualche patologia. Se capiti in un posto del genere sei rovinato, peggio del conte di Montecristo. Un mio amico c’è stato 3 anni, mi ha raccontato cose allucinanti”.
REBIBBIA – Lo scenario del carcere romano è uno dei peggiori. Ecco che cosa ricorda Zumbo: “C’erano una quindicina di persone nel corridoio, e ce n’erano 7 addirittura in matricola – ovvero nel luogo dove ti prendono le impronte digitali, ti danno le lenzuola e le gavette, per poi andare nel braccio di destinazione e quindi in cella. La matricola è come una hall, dovrebbe essere un luogo di passaggio, e invece qui 7 persone dormono per terra. Se stai male vomiti lì, e poi dormi e vivi nel tuo vomito. Immagina che condizioni sanitarie possono esserci in un luogo così. Non solo a livello medico è difficile intervenire in una simile situazione, ma per ogni tipo di assistenza. Se sei un tossico, è particolarmente terrificante. E questo succede a Roma, la capitale, pensa come possono essere messi altrove”.
I PRESERVATIVI E LA PREVENZIONE? – Secondo Zumbo in Italia è un’utopia pensare che vi possano essere una politica di prevenzione e la disponibilità di preservativi per arginare il contagio: non solo di Hiv ma di tutte la patologie sessualmente trasmissibili. “Sono stato in molte carceri. La Spagna è un milione di anni avanti a tutti. Quando entri in galera ti danno un kit, con prodotti per l’igiene, siringhe, preservativi, detergenti e altro di cui puoi avere bisogno – sono beni di prima necessità. Ho visto anche alcune sale buco – come a Bilbao e a Barcellona. Sono luoghi asettici, dove non rischi di ammalarti e puoi essere controllato. Noi dovremmo copiare da loro. Per mirare al contagio zero. I contagi potrebbero essere ridotti drasticamente. Farsi con siringhe usate o altri oggetti – io mi sono infettato usando una penna bic – e avere rapporti sessuali sono spaventosi veicoli di contagio. Spesso i ragazzi più giovani, subiscono violenza, perché dentro c’è di tutto. Questo è già molto ripugnante, che almeno non si ammalino!”.
“IL CARCERE COME FUCINA DI CONTAGIO” – Così Zumbo aveva definito la detenzione in una relazione a Barcellona nel 2008 (2nd European seminar prison and Hiv: the situation in Europe and the good practices, 17-20 gennaio). Gli chiedo se è ancora così, se è cambiato qualcosa in questi ultimi anni. “Potrei dire che il carcere è una fabbrica di malattia. O più esplicitamente che non è cambiato nulla. Anzi, siamo peggiorati perché c’è in giro gente come Giovanardi. La sporcizia è tale che bisognerebbe cominciare con il pulire. Se un tubercolotico arriva e nessuno se lo fila per 10 giorni, ha tutti il tempo di contagiare quelli che doveva impestare. Così per le epatiti. Ci sono ancora persone che quando escono di galera lasciano i propri spazzolini, i propri rasoi. Un rasoio per più detenuti. Questa è una cosa drammatica e molti ignorano il rischio. Il rasoio in genere lo compra chi ha i soldi in cella, lo usa e poi lo passa agli altri 6 o 7 che lo usano. Se uno ha l’epatite, nel giro di poco ce l’avranno pure gli altri 6 o 7. Stessa considerazione per lo spazzolino. Dico sempre, di usare piuttosto il sapone di Marsiglia e il dito per lavarsi i denti, ma non lo spazzolino di un altro. Ci muoviamo in questa situazione, tra consigli che dovrebbero essere ovvi e assenza di mezzi”. Consigli che forse sarebbero superflui se almeno gli spazzolini e i rasoi fossero facilmente reperibili.
LA FAMIGLIA – Quello che succede in carcere te lo porti dietro per tutta la vita, non solo come ricordo. “Non controllarsi non vuole dire essere sani, vuol dire non sapere. E soprattutto – sottolinea Zumbo – vuol dire essere pericolosi. Sei pericoloso se hai una moglie o una compagna, se sei sieropositivo perché sei un ex tossico e non ne sei consapevole – una premessa abbastanza comune. Vai a casa a fine pena: esci da questa merda, speri di ricominciare la vita e scopri di essere malato. Magari durante gli esami fatti quando aspettate un figlio. Ti immagini? Hai contagiato tua moglie e forse pure tuo figlio? Ti ammazzi. Infettare qualcun altro è atroce. È necessario fare il test. Se trovi una patologia sai come combatterla, se non hai nulla ti fai una risata. Ma non devi rischiare di contagiare altri”. Se a volte è difficile anche fuori, in carcere far passare questa idea può essere davvero complicato. “Una volta mi hanno detto: se su 100 detenuti riesci a convincerne 30 a fare il test per varie patologie, sei stato bravo. Sui 100 che ho incontrato, ho ricevuto 700 richieste per farsi gli esami. Sui poco più di mille che ho visto girando per varie carceri, il progetto a ha ricevuto 5000 richieste – hanno ascoltato parlare uno di loro, ‘un pari’…si sono passati semplicemente la voce, forse perché hanno ‘sentito’ più che ascoltato”.
FUORI – Una volta che esci spesso ti trovi peggio di quando sei entrato. “Devi andare a rubare o a spacciare. E tanti non hanno la dignità di andare alla Caritas. Piuttosto vai a rubare. Ci sono i vinti: quelli che hanno paura di tornare in galera, quelli che diventano barboni. A Termini ce ne sono tanti di ex detenuti. Vivono in un angolo, buttati per terra. Tanti non ce la fanno nemmeno a rubare. Per non parlare della legge Bossi-Fini: le carceri sono piene di persone perché magari vengono da altri paesi o sono ragazzini finiti dentro per qualche canna. Se tu mandi una persona – soprattutto un ragazzino – in galera per detenzione di un paio di canne, lo distruggi. Gli rovini la vita, lo incattivisci. Alcuni non reggono, e si ammazzano. Senza contare quello succede dietro alle sbarre. Le violenze della polizia poi sono quasi del tutto ignorate. E se facessero le analisi alle forze dell’ordine, forse le parti si invertirebbero, o almeno si andrebbe in parità. Basta guardarli negli occhi per capire che molti sono strafatti di cocaina”. A questo si deve ovviamente aggiungere la lista di tutte le morti sospese – l’ultimo è Stefano Cucchi – senza nemmeno il riconoscimento delle responsabilità: Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi. L’elenco è lungo.
DONATO BILANCIA – Tra le centinaia di detenuti che Zumbo ha incontrato ce n’è anche uno particolarmente noto. Le circostanze dell’incontro sembrano piuttosto bizzarre. Mi racconta Zumbo: “Un giorno a Padova ci siamo trovati con 40 detenuti chiusi in teatro senza guardie, ma solo personale secondario, tutti insieme. A Napoli avevo avuto una platea di 500 detenuti, tra cui c’erano camorristi e assassini. Ero emozionatissimo, ma feci un buon lavoro, con tanto di strette di mano. Ma a Padova è stata più dura. Ho visto Bilancia. Ho avuto davvero paura, ho pensato che stavo lì con 5 ergastolani – cioè persone che non hanno niente da perdere – e Bilancia. Io son genovese. Puoi capire che impressione, ha ucciso malamente un sacco di persone e ha detto anche che ammazzerebbe ancora. Era lì in mezzo agli altri, non isolato come immaginavo io. Ho tenuto botta ma ho avuto paura. Ma com’è possibile che non ci fosse nessuno, almeno un brigadiere, un controllore. Ho pensato se uno si alza, o due perché è grosso, e lo strangolano davanti a noi? Non l’ho riconosciuto subito, e per fortuna. Ho riconosciuto la parlata. Io ho parlato a mezza bocca. Mi sono avvicinato a uno che aveva 22 anni da farsi e ho chiesto conferma che fosse Bilancia”. Bilancia sconta 13 ergastoli e 16 anni: ha ucciso 17 persone. Bilancia era quello soprannominato il serial killer dei treni e delle prostitute.
EDUCAZIONE TRA PARI – L’educazione tra pari sembra essere il mezzo più efficace per cominciare a rimediare alla mancanza di informazione, e per diffondere i primi e fondamentali rimedi per contenere la trasmissione. “Il fatto che io sia stato in carcere e mi sia contagiato in detenzione, fa la differenza. Sanno con chi parlano, parlo come loro, ho mangiato la loro stessa merda, ho guaito come loro al buio per tanti anni. Ora solo l’unico a fare questo lavoro, prima eravamo in due, io e un mio amico ma lui è morto. Nessuno mi ha detto di portarmi qualcuno dietro per imparare. Quando muoio io che succede?”. L’educazione tra pari funziona anche nella direzione inversa: “Una volta in un carcere mi si è avvicinato un ergastolano napoletano e mi ha detto: ‘hai usato quell’espressione, hai detto inculati da Dio, mi ha dato fastidio’. Mi ha spiegato perché: non avendo altro, con tre ergastoli, era in piena conversione religiosa. Non l’ho più usata quella espressione. È un’occasione per imparare
QUALCHE NUMERO SULL’HIV – Secondo l’Istituto Superiore di Sanità dal 1985 in poi l’età della diagnosi si sposta in avanti (escludendo le persone con età inferiore i 15 anni). Dai 26 e 24, rispettivamente per uomini e donne, si passa ai 38 e 34 del 2011. Se la trasmissione inizialmente avveniva nel 76,2% dei casi per via iniettiva, nel 2011 questa percentuale è scesa sotto al 5%. Sono aumentati i casi per trasmissione sessuale. I casi attribuibili a trasmissione eterosessuale sono passati dall’1,7% del 1985 al 45,6% del 2011; quelli a trasmissione omosessuale maschile dal 6,3% al 33,2%. Tra il 1985 e il 2011 sono state segnalate 52.629 nuove diagnosi di infezione da HIV. I dati più recenti raccolti dall’Iss sono stati pubblicati nel “Supplemento de Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità del 2012”.
TESTING DAY – Proprio ieri negli Stati Uniti era la giornata nazionale del test per l’Hiv, il “National HIV Testing Day”. La prima si è svolta il 27 giugno 1995. L’intento, da allora, è sempre il medesimo: invitare le persone a sottoporsi al test per l’Hiv per conoscere le proprie condizioni di salute. Nel sito governativo ci sono tutte le indicazione su dove poter eseguire il test.