Come la “gig economy” ha rivoluzionato il mondo del lavoro (tra pro e contro)
Nata con la crisi finanziaria tra il 2007 e il 2008, questa nuova forma di "occupazione" ha dato spazio alla creazione di nuove forme contrattualistiche, spesso legate al mondo di internet
25/09/2022 di Enzo Boldi
Le varie crisi economico-finanziarie che si sono alternate nel corso degli ultimi decenni, hanno portato il mondo del lavoro a cambiare forma. Non solo quella del mercato della domanda, ma anche di quello dell’offerta. Ed è proprio da tutto ciò che è nato il concetto di “gig economy“. E l’evoluzione di Internet e – più in generale – del mondo digitale, ha velocemente amplificato l’evoluzione di questo fenomeno. E se prima erano le aziende a offrire lavori di questo tipo, oggi sono i lavoratori a proporsi seguendo questo concetto.
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Per avere una definizione tangibile e una spiegazione appropriata del concetto di gig economy ci affidiamo al vocabolario dell’Enciclopedia Treccani, nella sezione neologismi: si tratta di un «modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali». Questa delucidazione offre già uno spazio di riflessione: perché si tratta sì di un modello lavorativo che offre nuove opportunità professionali, ma non permette a chi sposa questa “causa” di avere le stesse tutele dei contrattualizzati con le forme che potremmo definire “tradizionali”.
Gig economy, come è nata
Tutto nasce da una crisi. In particolare, da quella finanziaria che ha colpito moltissimi Paesi del Mondo (anche solo di riflesso) tra il 2007 e il 2008, proseguendo – nei suoi effetti nefasti non solo sul costo della vita, ma anche a livello di posti di lavoro e stipendi – anche negli anni successivi. Una crisi di liquidità, in alcuni casi anche di solvenza, che ha colpito banche e – di conseguenza – interi Stati. Istituti di credito o finanziari (il caso più emblematico, con immagini amaramente iconiche che sono rimasse impresse nei capitolo della storia contemporanea, è quello della Lehman Brothers che fallì ufficialmente il 15 settembre del 2008) furono costretti a chiudere i battenti, facendo anche perdere il posto di lavoro a migliaia di cittadini.
Una situazione di precarietà generalizzata. Lavoratori senza più un posto di lavoro, mancanza di liquidità e una recessione universale che, al termine del 2009, portò il Prodotto Interno Lordo (PIL) a un calo globale del 2,2%. Ed è proprio da quelle ceneri, che continuarono a bruciare per diversi anni, che nacque la gig economy. E questo concetto apparve per la prima volta nel 2009.
La pandemia Covid-19
Il fenomeno della gig economy non si è più arrestato. Anzi, con le crisi successive il suo effetto e impatto si è amplificato. Perché i riflessi economico-finanziari di tutto ciò che è accaduto nel mondo a partire dal biennio 2007-2008 hanno condizionato ancor di più due aspetti: il tipo di offerta e le esigenze dei singoli lavoratori. E con la pandemia Covid-19 esplosa in tutto il mondo nei primi mesi del 2020, i “giggers” (gig workers) si sono moltiplicati. Dopo lo choc iniziale a livello sanitario, c’è stato anche quello a livello occupazionale. Molte aziende, anche in Italia, dopo aver usufruito della cassa integrazione, si sono viste “costrette” a procedere con molti licenziamenti. Altri lavoratori, invece, hanno scoperto lo smart-working e molti di loro hanno preso coscienza di come internet e la rete possano snellire e rendere più flessibile il mondo del lavoro. Non è un caso che, infatti, nel periodo delle cosiddette “grandi dimissioni” si siano moltiplicate le figure che si sono offerte al mondo del mercato per progetti, lavori a tempo, collaborazioni e consulenze.
Gig economy cosa vuol dire
A parlare di tutto ciò fu Tina Brown che in suo editoriale pubblicato sul The Daily Beast commentò ironicamente questa nuova tendenza – definita Gigonomics – che si stava palesando nel mondo del lavoro. La direttrice e fondatrice del portale di informazione americano, infatti, era partita dai dati di un sondaggio in cui si era palesata questa nuova direzione occupazionale: sempre più “Gig” (che nel vocabolario inglese-americano sta per “lavoretti occasionali) legata al nuovo mondo di quell’economia basata sul lavoro. La crisi economico-finanziaria ha portato, dunque, aziende a “offrire” lavori più flessibili (anche senza “esclusività”) e i cittadini a cercare – spesso anche per assenza di alternative – questa tipologia di contratti.
Abbiamo, dunque, una data di riferimento, l’evento scatenante e l’evoluzione nel corso degli anni. Poi c’è stata anche l’evoluzione del digitale e di internet. Perché il web ha dato un grande contributo allo sviluppo della gig economy. Molte delle professioni che rientra, oggi, in questo ambito sono strettamente collegate alla rete e a tutti i suoi riflessi. In che senso? Per spiegarlo, utilizziamo la definizione data dall’antropologa Tatiana Mardare: «Gli operatori della Gig Economy sono persone che hanno mediamente una buona conoscenza della tecnologia informatica, sono spesso laureati o professionisti già affermati e decidono di “non accontentarsi” delle risorse derivanti da un impiego “normale” e definiscono da soli il livello di benessere da perseguire». Insomma, si parla – come condizione principale – di autonomia nella gestione del tempo e dello spazio. Di quel confine tra il tempo privato e quello lavorativo gestito in completa indipendenza e libertà. Opportunità che quelle che possiamo definire lavori e forme contrattuali standard non possono offrire.
I pro
Questo, dunque, è il quadro generale che racconta la gig economy e il mondo di Internet. E da qui emergono, in particolare, delle peculiarità positive e altre negative. I pro, ovviamente, riguardano la flessibilità: un “giggers” può scegliere il tipo di lavoro a cui approcciarsi (o per cui proporsi), scandire il proprio tempo tra la vita lavorativa e quella professionale. Ma non c’è solo il quando, ma anche il dove. Perché molte delle “professioni” legate a questo aspetto possono svolte da remoto: da casa, da uno spazio di co-working o da altri posti che non hanno la valenza fisica del classico lavoro da ufficio. Proprio perché legati al mondo del digitale, del web e di internet. E, proprio per tutti questi motivi, l’accessibilità al mondo del lavoro – seguendo queste dinamiche – è maggiore.
I contro
Ma oltre ai pro ci sono i contro. E sono tutti legati all’aspetto meramente economico. Perché la flessibilità di non avere tempi e spazi “obbligatori” porta molte altre incertezze sul futuro. I contratti su cui si basano la gig economy, infatti, non offrono molte delle tutele giustamente ricercate da chi lavoro: i fondi pensione, congedi pagati per malattia (o gravidanza) o tutto ciò che comporta la “disoccupazione”. Perché non avendo un lavoro contrattualizzato secondo le formule standard, tutto ciò non può essere normato dalla firma su un accordo. E questi contro rischiano di rendere molto meno luminosi i pro. Perché preferire solo il presente rispetto al futuro non può che rappresentare un aspetto negativo.