Cos’è l’emergency brake, l’ultima carta sul tavolo per salvare l’accordo sul Recovery Fund

Non c’è (ancora) la soluzione per il Consiglio europeo convocato il 17 luglio che avrebbe dovuto portare all’accordo dei Paesi dell’Unione Europea sul Recovery Fund. Due i punti controversi della riunione, con i Paesi frugali (guidati dal premier olandese Mark Rutte) che sono riusciti a mettersi di traverso sulla strada verso agevoli soluzioni economiche, di cui avrebbero beneficiato soprattutto i Paesi mediterranei come l’Italia. In modo particolare, stiamo parlando del potere di veto sull’erogazione dei fondi e sull’entità dei finanziamenti a fondo perduto messi in campo dall’Unione Europea. È spuntato poi il concetto di Emergency brake, ma andiamo con ordine.

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Emergency brake, cos’è e cosa c’entra con il Recovery Fund

Le due posizioni opposte partivano da punti inconciliabili. Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte avrebbe voluto mantenere l’entità del Recovery Fund sui 750 miliardi di euro, da erogare tra i vari Paesi dell’Unione Europea senza alcuna condizionali e permettendo agli stati sovrani di decidere le modalità migliori per impiegare i fondi (all’Italia sarebbero spettati 147 miliardi di euro).

I Paesi frugali, guidati dall’olandese Mark Rutte, invece, vorrebbero ridurre l’entità del Recovery Fund e vorrebbero introdurre una sorta di potere di veto da affidare ai singoli Paesi sull’erogazione dei fondi. In questo modo, ad esempio, l’Olanda potrebbe non accettare il piano di investimenti e di riforme per cui l’Italia andrà a chiedere i fondi dell’Unione Europea.

Come funziona l’Emergency Brake

Entrambe le posizioni sono ritenute inconciliabili dalla cancelliera Angela Merkel, presidente di turno del Consiglio, che tuttavia sembra fare maggiormente sponda con i Paesi frugali. Per questo a un certo punto, si è introdotto il concetto di Emergency brake, un freno di emergenza. Non sarà un vero e proprio diritto di veto da parte dei singoli stati membri, ma vi assomiglierà moltissimo. Funzionerebbe così: il singolo Paese che richiede i fondi sottopone il proprio piano di investimenti alla Commissione Europea che, a sua volta, lo girerebbe al consiglio dei ministri economici dell’Unione Europea (l’Ecofin). Se in questa sede, un Paese dovesse essere in disaccordo con il piano di un altro Paese, allora la proposta potrebbe essere sottoposta nuovamente al consiglio europeo. Un sistema che, di fatto, limiterebbe il raggio d’azione dei singoli Paesi e rallenterebbe i tempi di emissione dei fondi.

Ma questo rischia di non essere l’ultimo punto controverso: al termine del Consiglio europeo, infatti, potrebbe esserci anche una riduzione della potenza di fuoco economica del Recovery Fund, oltre al fatto che una tranche del 30% dei fondi previsti per singolo Paese potrebbe essere collegata a un anche se minimo aumento del Pil. Insomma, un ostacolo dietro l’altro. Il Consiglio europeo non è stato favorevole all’Italia.

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