E il Giornale inventò le umili origini della segretaria del Senato cara a Lega & Schifani
10/02/2011 di Tommaso Caldarelli
“E’ figlia di un commesso”, dice il quotidiano di Sallusti. Sì, ma di palazzo Madama.
Da qualsiasi angolazione la si voglia guardare, la notizia che una donna, Elisabetta Serafin, è la nuova segretaria generale del Senato, in un luogo monopolizzato dagli uomini per 70 anni, è una buona notizia di certo. I migliori auguri ad una donna che praticamente vive a palazzo Madama da decenni e di cui si hanno solo cronache di efficienza e competenza. Questo, tuttavia, non riduce in nessun modo la necessità di raccontare la sua storia in maniera onesta e veritiera, evidenziandone anche i lati da approfondire.
IN ROSA – La nomina della donna di origine trevigiana ma ormai trapiantata a Roma è stata sbandierata in pompa magna dal presidente del Senato, Renato Schifani, che sembra averla promossa e sostenuta, e da tutta la maggioranza che a tamburo battente ha rivendicato la rivoluzionarietà della nomina. L’opposizione, invece, ha rinunciato ad esprimere preferenza favorevole nei suoi confronti perchè, racconta Repubblica, si sarebbe trattato di una nomina con una forte venatura politica in una carica amministrativa che tradizionalmente rimane super-partes.
Una scelta che ha sollevato polemiche alla vigilia. Nomina dettata dalla politica, hanno insinuato i democratici. Serafin viene considerata troppo vicina alla Lega mentre i ruoli tecnici del Parlamento sono sempre rimasti fuori dalle dinamiche dei partiti.
Così, dicevamo, Repubblica.
PROLETARIATO – Dalle pagine del Giornale sale la retorica e la polemica. Perchè l’opposizione non ha votato la Serafin? E’ per partito preso? E’ il solito ostruzionismo comunista?
È donna. È competente e capace, lavora da mattina a sera, cortese e riservata Ed è giovane per il ruolo che andrà a ricoprire. Ruolo per la prima volta nella storia della Repubblica assegnato a una donna. Ma all’opposizione non piace. Perché? Evidentemente «a prescindere» come direbbe Totò. Forse semplicemente perché è la candidata proposta dal presidente del Senato, Renato Schifani. Comunque, dato che alla fine il Pd è riuscito a dividersi anche in questa occasione, Elisabetta Serafin è stata eletta ieri a maggioranza segretario generale del Senato dal Consiglio di presidenza di Palazzo Madama, nessun voto contrario. Pdl e Lega hanno votato sì (tranne Schifani perché il presidente per prassi non vota). A favore pure due senatrici dell’opposizione, Emanuela Baio Dossi (Pd) e Helga Thaler (Svp). Astenuto Vincenzo Oliva, Mpa, mentre gli altri Pd e Idv non hanno votato ma non hanno lasciato la seduta. Nella storia delle conquiste femminili nel nostro Paese la data di oggi dunque meriterà di essere sottolineata perché, per la prima volta dall’Unità d’Italia, una donna raggiunge il vertice dell’amministrazione di un organo costituzionale. Una struttura imponente con quasi mille dipendenti e un bilancio di 594 milioni di euro. Ci sono voluti 150 anni e la tenacia di questa signora discreta ed elegante che ha agevolmente scavalcato i due ostacoli principali: quello del sesso e quello di «classe» visto che è figlia di un commesso.
Che storia importante. “Di classe”, addirittura dice il Giornale. Che forza d’animo, è figlia di “un commesso”, continuano da via Negri, col chiaro intento di far apparire le forze di opposizione come quel noto coacervo di radical-chic con la puzza sotto il naso che cianciano di poveracci e di operai salvo poi rimangiarsi tutto nei fatti.
QUESTIONE DI COMMESSI – Che lo siano oppure no, non ci interessa ora. Ci interessa la completezza dell’informazione che vorrebbe che la descrizione fosse estensiva e veritiera. Figlia di un commesso, dicono al Giornale: ma non di un venditore di frutta o di un impiegato in un negozio di vestiti. Figlia di un commesso del Senato. Che è cosa un po’ diversa. Una descrizione magari migliore del passato di Elisabetta Serafin ce la restituisce il Secolo XIX.
Sarà forse anche grazie a certe pressioni della Lega, ma il Senato ieri ha rotto uno dei tabù italiani più duri a morire, mettendo una donna a capo della propria burocrazia. Questa stakhanovista bionda sempre interamente vestita di Chanel, accessori compresi, nata a Roma ma di origini trevigiane che non possono essere dispiaciute al Carroccio ed in particolare alla vicepresidente leghista Rosi Mauro, lavora al Senato da 25 anni dove si classificò prima al concorso per consigliere parlamentare con già in tasca un posto da dirigente della Banca d’Italia. (…) Serafin respira l’aria del Senato fin da bambina, visto che il padre lavorava a Palazzo Madama da commesso.
Ora: visto il suo curriculum accademico e professionale, la validità di Elisabetta Serafin è a prova di bomba. Proprio per questo non ha alcun bisogno di essere trascinata in una polemica politica dal Giornale, che si inventa una sua inesistente origine proletaria per contestare le scelte della sinistra – che pure, poteva fare lo sforzo di votarla: ma sono scelte autonome. Questo pare irrispettoso sia della storia personale di Elisabetta Serafin, che dei tanti commessi veri ed autentici della pizzeria sotto casa, dei centri commerciali e dei negozi di frutta che avrebbero pochi problemi a spiegare in cinque minuti a quelli del Giornale quale differenza c’è fra un commesso dei mercati generali e un commesso in livrea di palazzo Madama: chissà perchè le Asl vengono prese d’assalto per la richiesta dei certificati di idoneità ogniqualvolta viene bandito un concorso per funzionari di questo genere.