Alle radici dello sharenting

Da dove nasce questa prassi e perché si sta diffondendo in maniera così capillare nell'ultimo periodo. Lo sharenting potrebbe essere, nel prossimo futuro, la causa maggiore di truffe sull'identità

09/03/2023 di Redazione Giornalettismo

Non nascondiamoci. Quando pensiamo a una foto di una famiglia condivisa sui social network, il primo pensiero corre immediatamente ai piccoli e grandi influencer che, sempre più spesso, hanno scelto di puntare molto sulla pubblicazione di momenti familiari per fidelizzare la propria community. Eppure, quando pensiamo a foto di bambini – figli, nipoti e quant’altro – condivise sui social dovremmo far riferimento ai problemi che questa prassi comporta. Si chiama sharenting ed è la tendenza, da parte dei genitori, di pubblicare su Instagram, Facebook, YouTube e app di messaggistica istantanea le foto dei figli minorenni. Questa prassi, ovviamente, si applica anche ad altre piattaforme, ma la loro minore frequentazione – ad esempio di TikTok – da parte di adulti porta a indugiare maggiormente su altri social network per misurare il problema.

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Cos’è lo sharenting e quando viene definito per la prima volta

La prima definizione di sharenting si può rinvenire in ambito accademico anglosassone, nel periodo del 2015. Tuttavia, alcuni studiosi hanno evidenziato che, in realtà, la prassi dello sharenting è sempre stata utilizzata dalle famiglie, anche se – in passato – i mezzi di condivisione erano molto diversi e non avevano propriamente una dimensione pubblica come quella garantita dai social network. La creazione di album di fotografie delle vacanze, che poi venivano puntualmente mostrati alla cerchia di amici, la creazione di diapositive che venivano proiettate durante occasioni conviviali rappresentavano sicuramente delle prime declinazioni dello sharenting. Ma si trattava di una forma sicuramente più circoscritta, non pericolosa rispetto a quelli che sono considerati, oggi, i principali pericoli.

I principali rischi dello sharenting

Innanzitutto, si parla del rischio più evidente: quello della sessualizzazione delle immagini dei minori che vengono pubblicate sui social network, soprattutto se i profili delle persone che le condividono sono pubblici e possono, quindi, raggiungere potenzialmente una platea molto vasta di utenti. Il secondo rischio, invece, riguarda la diffusione di dati personali sensibili che, in quanto tali, possono essere utilizzati ai danni dei minori coinvolti. Le immagini, infatti, possono essere impiegate per la falsificazione delle identità o per i furti delle identità stesse: uno studio britannico promosso dal gruppo Barclays evidenzia come, nel 2o30, i due terzi delle truffe riguardanti l’identità potranno essere derivate dalla prassi dello sharenting.

Il terzo motivo di rischio è direttamente collegato alla salute psico-fisica dei minori: questi ultimi, quando raggiungono l’età della consapevolezza, possono soffrire molto la pubblicazione di loro foto in contesti intimi e privati. Molti possono, infatti, ritenere che una esposizione di questo tipo possa essere causa di bullismo o di altre violazioni. In più, una volta raggiunta la maggiore età – ma la misura di questo fenomeno si potrà avere soltanto dopo almeno uno scarto generazionale – i minori di cui sono state pubblicate le foto possono ritenere sconveniente questa attività promossa dai loro familiari e da essi non autorizzata in alcun modo.

Lo sharenting ha una sfumatura più sbiadita nel caso in cui le immagini facciano riferimento a un minore “Gillick-competent” (si fa riferimento, con questa espressione, a un modo di dire di area anglosassone, derivante da un procedimento della House of Lords, che qualifica l’età del minore necessaria ad acconsentire a cure in ambito medico), ma è molto più netto e complesso nel caso in cui il minore non abbia ancora alcuna capacità di poter determinare le conseguenze delle proprie azioni o di ciò che lo riguarda. Addirittura, esistono casi di pre-birth sharenting, quando i genitori decidono di postare immagini legate ai loro figli prima ancora del parto (ad esempio, la pubblicazione delle immagini di ecografie e simili).

La legge italiana e lo sharenting

Al di là di quanto previsto a livello internazionale dalle convenzioni sui minori e al di là della legge europea sulla privacy, non esiste una norma organica, in Italia, che possa disciplinare la pratica dello sharenting (come, invece, si sta cercando di fare in Francia, con la proposta di legge in discussione a partire da lunedì scorso). Ci si limita, dunque, a esplorare l’esito della giurisprudenza in materia: il tribunale di Chieti, nel 2020, aveva emesso una diffida nei confronti di due genitori divorziati che pubblicavano immagini del figlio senza consenso; il tribunale di Rieti, nel 2022, aveva condannato una zia a risarcire 5mila euro al padre dei nipoti, in seguito alla pubblicazione – su un profilo pubblico di Facebook – di un video e di 52 foto in cui si mostravano i minori in questione. In quest’ultimo caso, non è bastata nemmeno la rimozione del materiale dalla piattaforma per porre rimedio al contenzioso che si era venuto a creare.

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