Perché dopo il disastro OVH si torna a parlare di cloud pubblico in Italia

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È una delle battaglie di Vittorio Colao, ministro per la transizione digitale

Pavia, Cattolica, Trapani. E poi ancora i comuni del cuneese. Altri campanili italiani come Como e Pordenone. Sulla mappa online della penisola ci sono tanti punti vuoti. Sono gli spazi lasciati dal down dei siti internet causato dal devastante incendio che ha colpito il data center di OVH a Strasburgo. Tanti comuni italiani, infatti, hanno affidato i dati relativi ai propri siti internet (e, di conseguenza, ai loro servizi digitali) all’azienda di Octave Klaba che, dal 10 marzo, deve combattere con le conseguenze di un incendio che ha reso irraggiungibili le stanze del data center dove venivano processati i dati di numerosissimi siti – sia pubblici, sia privati – dell’Unione Europea.



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Cloud pubblico in Italia, perché se ne parla di nuovo oggi

Tuttavia, non sono i siti privati il focus di questo argomento, ma quei siti pubblici, istituzionali che si avvalgono di servizi privati per la gestione dei propri database. La domanda è: per quale motivo le pubbliche amministrazioni, ancora oggi, sono costrette a rivolgersi ad aziende come OVH – che tra le altre cose operano all’estero – per permettere il corretto funzionamento dei propri servizi digitali? Il tema è tornato prepotentemente d’attualità e, con esso, anche quello del cloud pubblico in Italia.



Se ne parla da tempo, sono stati fatti anche numerosi tentativi, ma a marzo del 2021 – con una pandemia mondiale di mezzo – ci ritroviamo ancora a parlarne come se fosse una soluzione raggiungibile soltanto in un futuro lontano. Adesso, però, i tempi sembrano essere maturi. Non tanto per l’incendio di OVH in sé, quanto per l’aggancio che questo fatto di cronaca ha dato ai teorici del cloud della pubblica amministrazione per riportare il tema al centro dell’agenda politica.

Il cloud pensato da Vittorio Colao

E non è secondario il fatto che Vittorio Colao sia l’attuale ministro della Transizione digitale. Il super manager prestato alla politica per questa esperienza “semi-tecnica” dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, infatti, è uno degli artefici principali del successo della corrente che vorrebbe al più presto un cloud accessibile per la pubblica amministrazione in Italia. «Una infrastruttura di questo tipo – ha ricordato recentemente Colao nel corso dell’evento di ASviS che ha segnato anche il suo debutto in pubblico da ministro, se si fa eccezione per gli appuntamenti istituzionali come il giuramento al Quirinale e il voto di fiducia alle camere -, con un cloud pubblico, sarebbe meno costosa e più sicura, offrendo al cittadino anche una maggiore possibilità di beneficiare di servizi della pubblica amministrazione».



Il cloud pubblico serve, ovviamente, a migliorare i servizi e la relativa sicurezza degli stessi, a creare un legame tra i vari servizi offerti dalla PA, a proteggere in maniera più completa i dati e, ovviamente, a evitare che le amministrazioni pubbliche siano eccessivamente dipendenti dalle società private che, attualmente, forniscono questi servizi. Non si dovrebbe parlare, tuttavia, di un cloud di Stato, ma di un cloud pubblico – appunto – per prevedere il confronto più ampio tra gli operatori del settore che, a quel punto, metterebbero a disposizione il proprio know-how per un progetto comune.