Solo il cinema sta raccontando un mondo in fiamme

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Dall'ultimo lavoro di Ken Loach fino alla distopia di "Jocker": così le pellicole di questi anni ci raccontano un mondo di inuguaglianze intollerabili

Non c’è più nessuno spettro che si aggira per l’Europa, né per l’Occidente. Ma se la politica appare più che mai priva dell’alfabeto per decodificare la rabbia e le tensioni del presente, tocca al cinema raccontare un mondo in fiamme. È questo il senso più profondo dell’Oscar come miglior film a “Parasite” di Bong  Joon-ho, una consacrazione che non è certo un caso. Nell’anno del trentennale della caduta del Muro di Berlino l’ingiustizia sociale, spesso intollerabile, è stata la protagonista assoluta della stagione cinematografica. Una finestra su un mondo che coincide spesso con una quotidianità invisibile che molti scelgono, coscientemente o meno, di non vedere.



Di che mondo parliamo? Per esempio di quello fotografato dall’ONG Oxfam, che ci ha raccontato di come, nel mondo del 2019, poco più di 200 magnati vantassero una ricchezza superiore a quella di 4.6 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale), mentre alla metà della popolazione mondiale restava appena l’1% della ricchezza. Una dinamica replicata fedelmente anche a casa nostra: nello Stivale l’1% più ricco deteneva, nell’anno che ci ha appena lasciato, quasi quanto il 70% di tutti gli altri cittadini.

Famiglie “resistenti” e guerre fra poveri

È in questo contesto che trova genesi un film come “Parasite”, del regista sud-coreano Bong Joon-ho, già Palma d’Oro a Cannes e film rivelazione del 2019. L’alto e il basso della società, senza più corpi intermedi o soluzioni di continuità, è incarnato dalle due famiglie protagoniste del film. Alla miseria dei bassifondi di un quartiere popolare che assomiglia a un inferno, dove si aggira un’umanità costretta a campare di espedienti e respirare precarietà esistenziale, fa da contraltare il mondo sfarzoso e apollineo della famiglia di un ricco dirigente di un’azienda informatica. A una villa sfarzosa con tutti i comfort fa da specchio uno scantinato maleodorante, dove anche una disinfestazione respirata a pieni polmoni diventa un’occasione per liberarsi dagli odiati insetti. I due mondi, le due città, non comunicano più: da una parte gli dei, dall’altra gli intoccabili, a cui rimane solo una soluzione. Quella di infiltrarsi lentamente nella casa dei ricchi, con astuzia e ingegno come veri e propri parassiti, non prima di aver instaurato una guerra fra poveri con chi è addirittura più sfortunato di loro. Non c’è più spazio per unirsi, in una lotta per l’esistenza diventata sempre più feroce e disperata, né per ascendere socialmente con i propri meriti. Spariti vocaboli arcaici come “lotta di classe” o “dialettica sociale”, ai nuovi proletari non resta che sgomitare e farsi la guerra per godere delle briciole dei signori, il cui privilegio assume una connotazione quasi religiosa e sicuramente immutabile. Anche quando le tensioni saliranno, l’esplosione di rabbia sarà incontrollata. Un timido e omicida sussulto morale incapace di erigere un nuovo ordine. Le carte in gioco sono date, non c’è nessun modo di far saltare il mazzo.



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Anche nel caso di “Sorry We Missed You” di Ken Loach è una famiglia la protagonista di una storia di sfruttamento che ha poco a che fare con il passato. Ricky, il protagonista del film, è un padre di due bambini e un marito affettuoso. La famiglia non può permettersi un mutuo e così Ricky decide di comprare un furgone ed entrare nel mondo della logistica. Parte di quel mondo invisibile che fa sì che i prodotti si muovano da una parte all’altra del mondo fino alla nostra porta di casa. Ed è qui che Loach mette in scena tutto l’assurdo della condizione di quella che è stata ribattezzata “Gig Economy”. Cosa si intende per “Gig Economy”? L’insieme di lavori temporanei che caratterizzano sempre più il mercato del lavoro, svolti formalmente in proprio. L’esempio più eclatante data da questa condizione è quella, ad esempio dei riders. Anche Ricky è un lavoratore “autonomo”, ma solo sulla carta. La sua vita è scandita dagli infernali ritmi di un algoritmo e dai risultati che di fatto deve assicurare per continuare ad avere garantito il suo giro di affari. Dimenticate ferie, malattia, orari: la vita di Ricky si trasforma in una lotta serrata per la sopravvivenza, senza nessuno contro il quale riversare rabbia e legittime rivendicazioni. Tutto è orchestrato dalla fredda razionalità di un algoritmo ai quali gli esseri umani devono adeguarsi, buttando a mare un secolo di conquiste sociali. Il precariato come unico orizzonte esistenziale e progettuale. Agli individui raccontati da Loach non resta che la lotta fra poveri, che coincide brutalmente con la lotta per l’esistenza. L’unico baluardo contro questa deriva è la famiglia, ma è un nucleo sotto assedio che rischia di esplodere. Anche la moglie di Ricky è una lavoratrice precaria, anche lei è senza orari e diritti. La vita è una brevissima parentesi tra un lavoro logorante e l’altro, le famiglie sono solo un ostacolo per i nuovi padroni e gli schemi produttivi. L’ideale per i nuovi signori globali senza volto sarebbe una massa di individui soli, anomici e completamente atomizzati,  ideali per adattarsi senza resistenze alle mutevoli condizioni di mercato.



La dissoluzione dei vincoli di solidarietà

È esattamente quello che avviene in Jocker, capolavoro di Todd Philips e vincitore dell’ultimo Festival di Venezia. Il protagonista, un clown dilettante interpretato da un magistrale Joaquin Phoenix, è un disadattato vessato da una quantità insopportabili di violenze personali e sociali. Un clown che si trasformerà in breve in un sanguinario carnefice. La sua vendetta personale si fonde con una rabbia sociale ormai incontrollabile e devastante in un mondo che assomiglia nemmeno troppo velatamente al nostro presente. Un universo segnato da disparità di ricchezze ormai inaccettabili, da una frammentazione sociale dilagante, dall’assenza dello stato e dei servizi sociali. Un mondo in cui la politica, intesa come collante e progetto collettivo, non esiste più. La rabbia riesce a incarnarsi solo nella vendetta, nell’identificazione con un’omicida e in tumulti violenti e populisti che sembrano solamente mirare a distruggere più la civiltà tout court che il sistema. Uno scenario che assomiglia all’orrenda “Nuova Preistoria” evocata da Pier Paolo Pasolini in una delle sue liriche più struggenti. Una civiltà composta di monadi intente alla lotta per la sopravvivenza, schiacciate e soggiogate dalla società dello spettacolo; uno spettacolo sempre più violento e invasivo.

Rimanendo all’ultimo Festival di Venezia è impossibile non citare “Martin Eden”, film di Pietro Marcello, magistralmente interpretato da Luca Marinelli. Nella vicenda del protagonista, alter ego di Jack London (dal cui romanzo è tratto il film), capace di diventare da semi-analfabeta in condizioni di povertà ad affermato scrittore, c’è tutta la distanza che separa due mondi e due condizioni dell’esistenza. Martin Eden è uno “che ce l’ha fatta”, ma il suo riscatto non coincide con nessun cambio nella società, né con la felicità personale. L’amore della sua vita, che ha respinto la verità che veniva dai bassifondi che erano casa sua, ora lo cerca. I circoli borghesi che prima lo rifiutavano o lo trattavano con supponenza finiscono per acclamarlo, ma le distanze restano, così come la sua inadeguatezza. È un problema di classe, non solo di esistenza. Le distanze rimangono immutate, così come quella che separa Martin dalla sua giovinezza e dalla sua innocenza. L’ennesimo fotogramma di un cinema che riscopre una verità fondamentale: non siamo tutti uguali, le nostre condizioni sociali determinano ancora il nostro destino. Le differenze sociali sono destinate a essere sempre più feroci e la risultante è una pentola in piena ebollizione. Il cinema di questi anni è al momento uno degli strumenti più efficaci per descriverne la fiamma.